“Squiggles”, il cantiere dell’integrazione

Psicoanalisi

“Squiggles”, il cantiere dell’integrazione

di Marco Armellini

Quella che vi presento è un’esplorazione personale di “Consultazioni Terapeutiche nella psichiatria infantile”, uno dei tre grandi progetti che Winnicott concluse con un lavoro intensissimo nei ventisei mesi che separarono la prima manifestazione della malattia cardiaca, nel travagliato viaggio a New York, dalla morte: CT, The PiggleGioco e realtà. Sono libri che sono nati sempre da un lavoro fortemente dialogico con le persone che egli scelse come interlocutori, in particolare Masud Khan, o Ishak Ramzy per ‘Piggle’. Personalmente, il mio contributo nasce dal dialogo ormai più trentennale con alcune persone a cui devo l’incontro con Winnicott, prima di tutto ovviamente ad Andreas Giannakoulas, che ha dato un grande contributo indiretto anche al progetto CW, e ovviamente, a Vincenzo e a Paolo, con relazioni generazionali diverse.

 

La Consultazione Terapeutica

L’impegno di Winnicott, come medico e come psicoterapeuta, può essere sintetizzato così: una ricerca di come dare il massimo aiuto nel minor tempo e minor spazio possibile. Oltre ai trattamenti psicoanalitici prolungati, egli aveva sempre dedicato molto tempo a consultazioni brevi, sia nell’attività privata che nel suo impegno istituzionale al Paddington Green Children’s Hospital, a cui si dedicò per quarant’anni, dal 1923. Due aspetti della consultazione breve lo stimolavano:

– la sfida economica di un tempo breve e di uno spazio limitato, con poche risorse diagnostiche e terapeutiche, che costringevano a investire sulle risorse del paziente e dell’ambiente,

– e la sfida dell’imprevisto.

Queste sfide avevano contraddistinto altre esperienze professionali che avevano pesato molto nella sua formazione: l’esperienza di medico della marina in guerra, l’anno passato al pronto soccorso del St Bartholomew’s Hospital dopo la laurea, il suo ambulatorio al Paddington Green, ed il lavoro con i bambini sfollati durante la seconda Guerra mondiale.

L’ambulatorio al Paddington Green era divenuto un luogo molto speciale, in cui I colleghi da tutto il mondo venivano a vederlo lavorare con bambini di ogni età, e con le loro madri. In quello spazio ebbe l’opportunità di incontrare migliaia di madri con i loro figli e, con il passare degli anni, l’ambulatorio si trasformò da uno spazio strettamente pediatrico al luogo di quella che Winnicott chiamava un’attività psichiatrica. Era il luogo in cui poteva fare qualcosa di utile per I bambini e le loro madri in poco tempo, anzi, nel minor tempo possibile.

La sfida dell’inatteso, dell’imprevisto, è uno dei tratti più peculiari di Winnicott: essere capace di tollerare i vuoti e le carenze nelle proprie conoscenze e, in generale, nella conoscenza di ciò che è vivo e vitale, per riconoscerne interamente la complessità. Era profondamente convinto che la complessità della vita non poteva essere ridotta a meccanica. Se vuoi comprendere la vita devi tollerare che essa cambi sotto i tuoi occhi mentre la osservi, e che non puoi vedere ogni aspetto di ciò che osservi: la scienza della vita è incompatibile con un approccio riduzionista, che può solo studiare una vita fermata, uccisa, congelata. Questa capacità di costruire una conoscenza scientifica tollerando di non conoscere tutto era ciò che più ammirava in Charles Darwin e nel suo contributo, che rimase sempre il suo modello epistemologico.

La consultazione terapeutica contiene aspetti molto particolari: è un primo colloquio, e quindi il bambino, l’adolescente o l’adulto arrivano con un’aspettativa, e questa può essere riconosciuta e utilizzata dall’offerta del terapeuta. Se si pone in modo tale da essere incontrato come ‘oggetto soggettivo’, si realizza un’occasione per fornire il necessario contributo ambientale di ‘holding’ e sbloccare l’impasse del processo di sviluppo.

L’espressione ‘oggetto soggettivo’ fu introdotta da Winnicott nel 1948 per descrivere una situazione che appartiene ai momenti più precoci, in cui l’infante incontra l’ambiente, e che può essere descritta sia in termini di ‘illusione’ dal versante del bambino, e di ‘realtà’ da quello della madre. In quel momento “c’è un rivolgersi della personalità verso qualcosa’, qualcosa che il bambino in qualche modo si aspetta di trovare all’esterno, ma che non è ancora conosciuto e percepito oggettivamente. Se la madre offre il suo seno nel momento giusto, ella permette al bimbo di crearla, come oggetto che è soggettivo, nel senso che esiste sia nell’illusione del bambino che nella realtà della madre, la quale è disponibile e si identifica con i bisogni del bambino. I fenomeni transizionali, gli oggetti transizionali e la formazione dei simboli hanno le loro origini in questi processi. Essi rappresenteranno il solido fondamento di ciò a cui, più tardi, si potrà attingere per il lavoro terapeutico. ‘In questo ruolo di oggetto soggettivo, che raramente sopravvive al primo colloquio o a quelli immediatamente successivi, il dottore ha una grande occasione per entrare in contatto con il bambino’ (1971, Introduzione alla Parte 1 di Therapeutic Consultations in Child Psychiatry).

Per potere incontrare le aspettative del bambino di trovare un ‘dottore sufficientemente buono’, il terapeuta deve essere sufficientemente ingenuo, flessibile, aperto, capace di sbagliare, e di tollerare il rischio di comprendere tutto, e anche di non fornire interpretazioni. Bisogna assolutamente temere l’onniscienza e l’idealizzazione. L’idealizzazione sarebbe di ostacolo alla reciprocità e alla simmetria. Il bambino può utilizzare la consultazione se vive in un ambiente sufficientemente buono. L’esperienza di essere capace di comunicare nella consultazione può poi essere ‘riportata a casa’, rendendo, in quel contesto, nuovamente possibili integrazione e comunicazione. Non è tanto l’interpretazione ad essere ‘mutativa’, ma l’esperienza di essere di nuovo capace di comunicare e giocare.

Nella consultazione terapeutica, ‘il lavoro differisce da quello della psicoanalisi, in quanto non è fatto in termini di esempi di nevrosi di transfert’ (Commento al caso di ‘Milton’). Nella psicoanalisi, l’analista ha tutto il tempo per divenire un oggetto reale, per consentire la transizione dall’illusione alla disillusione. Nel colloquio terapeutico, il terapista rimane un oggetto soggettivo. L’esperienza che il bambino possiede di un ambiente affidabile gli consentono di affidarsi alla capacità del terapeuta di accettare la comunicazione, così che le esperienze spaventose possano essere comunicate, dando spazio all’esperienza del sollievo, ed essere così integrate nella personalità del bambino.

Il primo colloquio terapeutico può essere utilizzato perché rappresenta, per i bambini e i loro genitori, un’occasione special di comunicare dei processi che stanno accadendo o che sono accaduti altrove. Come Winnicott evidenziava, l’esperienza precoce non è necessariamente un’esperienza profonda, e il primo incontro porta con sé una dote di potenzialità perché, nella relazione precoce con il suo ambiente, il bambino ha sperimentato cosa significa essere ‘tenuto’ (held). Così, l’esperienza traumatica, oppure le emozioni e le sensazioni terrificanti possono essere rivissute e narrate nella consultazione, e nessuno dei due partners è, da solo, autore della narrazione.

Se la famiglia e la scuola (l’ambiente umano del bambino) sono pronte ad essere usate dopo la consultazione, allora può avere inizio la ‘guarigione’, e l’esperienza terrificante, le sensazioni e le emozioni impensabili e insopportabili possono essere integrate nella rappresentazione che il bambino ha di sé come oggetto intero. La consultazione può rappresentare un aiuto se i cambiamenti prodotti nelle esperienze terapeutiche possono rimetter in moto un processo di salute all’interno dell’ambiente. ‘L’interpretazione è minima. L’interpretazione in sé non è terapeutica, ma facilita ciò che è terapeutico, cioè il fatto che il bambino possa rivivere le esperienze spaventose. Con il sostegno dell’Io del terapeuta il bambino diventa capace per la prima volta di assimilare queste esperienze chiave in una personalità intera (‘Milton’). Questo approccio marca una sostanziale differenza con il modello Kleiniano dello sviluppo e del processo terapeutico. Quello che importa è il ruolo dell’illusione e della disillusione nella scoperta dell’oggetto, e il ruolo dell’oggetto nel permettere di essere scoperto e percepito oggettivamente, tollerando e sopravvivendo all’aggressione. Nella psicoanalisi questo processo avviene per la maggior parte all’interno del setting ma, nella consultazione, il lavoro della disillusione non può essere compiuto nel corso dei colloqui.

La sopravvivenza del terapeuta come oggetto soggettivo permette ai genitori di sopravvivere per essere poi scoperti come oggetti oggettivamente percepiti.

L’oggetto soggettivo è lì per essere incontrato, essere odiato, essere usato, distrutto e sopravvivere alla distruzione, e poi nuovamente trovato entro la sfera dell’onnipotenza, entro la portata del gesto spontaneo (‘Found Objects and Waifs’ ).

Nel primo colloquio con un bambino che ha avuto l’esperienza di un ambiente affidabile, il terapeuta può trovarsi nella posizione dell’oggetto soggettivo. Per questo Winnicott insiste che il bambino può realmente sognare il dottore la notte prima del colloquio. Dall’Introduzione alla Parte 1 di CT:

“sono stato colpito dalla frequenza con cui i bambini mi hanno sognato la notte prima dell’appuntamento…tuttavia mi trovavo a corrispondere a una nozione pre-concetta, come ho scoperto con divertimento. I bambini che hanno fatto questo tipo di sogni sono stati capaci di dirmi che avevano sognato proprio me. In un linguaggio che uso adesso ma che non ero attrezzato ad usare a quell’epoca, mi trovavo nella posizione di un oggetto soggettivo. Possiamo concepire questa particolare condizione come peculiare tipo di trasnsfert, un transfert “ di aspettativa”, che facilita il processo creativo, l’intimità, la fiducia e le esperienze transizionali. (‘Creativity and Its Origins’, 1971; CW 9:3:7)

Un’altra caratteristica importante del primo colloquio è che il terapeuta non ha né appigli, né appoggi che gli diano sicurezza, eccetto la propria capacità di incontrare il bambino in maniera aperta, disponibile a essere sorpreso e a sorprendere. Il suo compito è ‘tenere’ il paziente bambino e preoccuparsi di lui, con una solida base di conoscenza dei processi di sviluppo e della loro relazione con i bisogni emotivi e l’apporto dell’ambiente. L’obiettivo è rafforzare la capacità del bambino di fidarsi del proprio ambiente. Genitori e insegnanti possono potenziare e usare il successo terapeutico del colloquio.

Nella prima consultazione, c’è un’altra fonte di incertezza: non sappiamo se ce ne sarà una seconda, e dobbiamo quindi trarre tutto il possibile dal ‘qui ed ora’, senza annegare l’incontro con interpretazioni, o con un silenzio che può essere sentito ancora più onnisciente.

Il gioco degli Squiggle

Questo gioco, che divenne gradualmente, in maniera naturale, parte del primo colloquio di DWW con i bambini, era nato dalla sua abitudine personale di disegnare, scarabocchiare, o tracciare linee spontanee (doodling). Disegnare era per lui un vero piacere, un modo di comunicare con le proprie emozioni più profonde, lasciando, spesso, che fosse la sua mano a guidare la matita. La condivisione di questo processo con i bambini non era nato da un progetto deliberato e intenzionale, ma da un modo personale di offrire uno spazio intermedio per la comunicazione e per il gioco. Winnicott era così consapevole della natura idiosincratica di questa esperienza, che era riluttante a parlarne, per paura che venisse considerata una tecnica diagnostica. E, certo, chi tentasse di riprodurla meccanicamente si scontrerebbe con un ostacolo insormontabile: nessun bambino va avanti nel gioco degli squiggles se sente che il terapeuta non sta davvero giocando. La compiacenza non alimenta il gioco e, se non c’è un’autentica crescita dell’intimità, l’interesse si spenge, o non nasce.

Prima di CT, il gioco degli squiggles era stato già descritto in una nota nel 1964, in parte pubblicata nel 1968:

“ qualunque sia la tecnica che il terapeuta è preparato a usare, la base è giocare. Ho scritto altrove che secondo me la psicoterapia o è condotta nello spazio in cui si sovrappongono due aree di gioco (quella del terapeuta e quella del paziente), o altrimenti il trattamento deve essere diretto a permettere al bambino di diventare capace di giocare – che significa, avere motivo fidarsi dell’apporto dell’ambiente. Bisogna comunque che il terapeuta sia capace di giocare, e che provi piacere a giocare (1968; CW 8:2:47)”

Per chiedere al bambino di giocare, il terapeuta deve divertirsi a giocare; per utilizzare la ricchezza comunicativa di questo gioco, il terapeuta non deve essere bravo a disegnare, ma deve divertirsi a disegnare. Winnicott offriva al bambino qualcosa che aveva apparentemente un valore scarso: un foglio di carta, diviso in due parti, per dare l’impressione che quello che facciamo “non è così drammaticamente importante”, e due matite. Nessuna regola, se non quella della reciprocità, uno sforzo per alternare le posizioni. Il gioco può andare avanti e l’interesse del bambino può essere tenuto vivo, se l’atteggiamento del terapeuta è attivo, se si presta davvero al gioco, accettando incertezze e fallimenti, dando significato e valore ai contributi del bambino. Gradualmente, il contributo del bambino diventa più importante, perché il terapeuta usa i risultati del gioco per aumentare la propria conoscenza di ciò che il bambino vorrebbe comunicare.

Da parte sua, il bambino usa il terapeuta come oggetto intero, una persona del tutto nuova, che può essere scoperta e che può scoprire il bambino, che può allora sentirsi a sua volta visto come oggetto intero, da un punto di vista a lui sconosciuto.

Il terapeuta si offre come modello, agendo liberamente, lasciando spazio agli impulsi, ma al tempo stesso contenendoli nel setting del gioco. C’è spazio per essere ‘matti’ (vedi la relazione di Lesley Caldwell), per forme e significati inaspettati, per tutti gli “arricchimenti e complicazioni che appartengono a tutti i bambini (‘Review: Twins: A Study of Three Pairs of Identical Twins’, 1953; CW 4:2:6). Il terapeuta porta nel gioco la sua conoscenza, le sue teorie, la sua capacità di giocare, o anche il suo talento per il disegno, ma la cosa più importante è la sua integrazione. In altre parole, il terapeuta è lì per essere usato.

Quando parla del padre e della sua importanza per lo sviluppo, Winnicott dice: “Il padre può essere stato un sostituto della madre, oppure no, ma a un certo punto comincia a essere sentito in un ruolo differente, e qui suggerisco che il bambino è probabile che faccia uso del padre come di un ‘progetto’ per la propria integrazione quando sta ancora diventando un’unità per brevi momenti.” (1969). L’integrazione offerta dal terapeuta non è un’integrazione ossessiva, perché questa conterrebbe il diniego del caos. E il caos è proprio il risultato dell’irruzione della realtà nell’illusione dell’infante, l’insostenibile interruzione della continuità dell’essere. Portando il caos nel gioco, che però va avanti grazie al terapeuta, il bambino può sperimentare di nuovo la continuità. Se il gioco funziona, permette al bambino di sentirsi valorizzato, libero di giocare, in nessun modo inferiore al dottore. Se il contatto si stabilisce, il bambino non si sente esaminato. D’altra parte, il gioco degli squiggle non è un test, ma è un mezzo per consolidare uno spazio transizionale.

I disegni possono essere soddisfacenti di per sé, e allora la soddisfazione può essere condivisa e permettere un’esperienza di intimità nel condividere una creazione: “Spesso il risultato di uno squiggle è soddisfacente. Allora è come un ‘oggetto trovato’, come una pietra o un pezzo di legno vecchio che uno scultore può disporre in modo da esprimere qualcosa, senza bisogno di lavorarli. “Questo piace molto alle ragazze e ai ragazzi pigri, e getta una luce speciale sul significato della ‘pigrizia’ “( ‘Found Objects and Waifs’).

Jan Abram (1996) ha giustamente sottolineato la relazione del gioco degli Squiggle con lo schermo del sogno (Lewin, 1949), e in realtà il gioco ha molto a che fare con il lavoro del sogno: il gioco, come lo schermo, è il luogo in cui il sogno può esser sognato, e può facilitare l’accesso all’esperienza del sognare. Ci sono sogni ‘dentro’ gli squiggles, e sogni che ‘si appoggiano’ agli squiggles. E non sono solo gli aspetti della relazione primaria che vengono rivelati, ma anche il doloroso lavoro di elaborazione immaginativa delle funzioni e delle dis-funzioni del corpo. E sarebbe riduttivo dire che i singoli squiggles (le forme) hanno molto in comune con i sogni, è ‘come gli squiggles si correlano l’uno con l’altro’ (Abram) e si agganciano l’uno all’altro. Il modo in cui la sequenza degli squiggles si sviluppa è di per sé una narrazione, una catena che dipende dal contributo di ciascun partner, attraverso associazioni e generazione di nuove associazioni. Al tempo stesso, la sequenza dipende da come il terapeuta riesce a ‘tenere in gioco la palla’.

La Struttura di ‘Therapeutic Consultations” e la teoria dell’integrazione

CT non è solo una raccolta di resoconti clinici (molti già pubblicati in precedenza): è uno sforzo, profondamente pensato e organizzato, per offrire al tempo stesso, con l’esperienza clinica di Winnicott, la teoria e la tecnica in una forma che possa appassionare il lettore. Il libro era stato concepito e immaginato come strumento di insegnamento non convenzionale e non dogmatico rivolto alle nuove generazioni di clinici. Winnicott non ha in mente un lettore con una cultura e una formazione psicoanalitica, non necessariamente uno psichiatra o uno psicoterapeuta, ma una persona che, per professione (pediatra, psicologo, infermiere, insegnante, psichiatra, assistente sociale), deve affrontare le sofferenze emotive e le difficoltà dei bambini e degli adolescenti e che sente l’urgenza di non sprecare ‘la grandissima fiducia che spesso i bambini possono mostrare’ (Introduzione),

La teoria dello sviluppo emozionale dell’individuo e la tecnica della psicoterapia vengono illustrate in maniera non didascalica. Senza accorgersene, il lettore accompagna Winnicott nell’esplorazione dei territori sconosciuti del nuovo caso. È “la teoria che porto in giro con me e che è diventata parte di me e a cui non devo nemmeno pensare in maniera deliberata”

L’attento studio dei casi è un’occasione per condividere l’esperienza di Winnicott, con una tale abbondanza di dettagli che lo studente/lettore si senta nella posizione di ‘conoscere tanto quanto l’insegnante’, e seguire tutto ciò che avviene nelle sedute (di nuovo la simmetria). Winnicott ha scelto casi che non trasmettono un senso di particolare ‘acutezza’ o intuizione ‘magica’. Non deve apparire come un virtuoso, ma come un clinico esperto che può mostrare tutta la complessità e la fatica che servono per raggiungere e comunicare con i bambini.

Ancora una volta, non è la singola interpretazione che conta, ma la mutualità della comunicazione che si stabilisce. Questa non può essere né imitata, né copiata (la scena è tanto unica, quanto lo può essere un essere umano in relazione con un altro essere umano), ma quello che possiamo imparare è il modo in cui lo sviluppo emozionale di quel particolare bambino dà forma al gioco e alla comunicazione tra i due attraverso tutto il colloquio.

La teoria dello sviluppo emozionale e del contributo degli apporti ambientali, o della loro mancanza o distorsione, è evidente anche nella struttura del libro: le sue tre parti rispecchiano indirettamente una classificazione dei disordini dello sviluppo emozionale sulla base delle diverse qualità dei processi integrativi e la conseguente natura delle difese.

La prima parte presenta casi in cui i processi maturativi sono stati arrestati da un trauma, ma in cui c’è stata un’esperienza precoce sufficientemente buona e un ambiente sul quale fare conto: bambini per i quali la consultazione ha aiutato a ripristinare la continuità dell’essere, il senso di unità con l’oggetto primario, la capacità di internalizzare la continuità dell’essere e di riconoscere la dipendenza.

Nella seconda parte sono considerati i casi in cui una carenza ambientale aggrava il carico sul Sé e provoca una distorsione dello sviluppo del Sé. La carenza ambientale precoce può essere descritta dai termini ‘privazione’, ‘costrizione’ (impingement) e/o ‘trauma cumulativo’, e le difese sono in massima parte espresse dal falso Sé e dalla dissociazione. Sono bambini e adolescenti in cui c’è stato un ostacolo a raggiungere lo stadio dell’”Io sono”, a essere tollerati e accettati come individui che hanno bisogno di usare l’oggetto, e di esistere senza tenere conto delle conseguenze dell’aggressione verso l’oggetto, prima ancora di essere capaci di preoccuparsi per l’oggetto.

Questo tipo di fallimento ambientale relativo può determinare l’instaurarsi di difese dissociative (‘Various Types of Psycho-Therapy Material’, in Human Nature, Part 3, Chapter 3,). La dissociazione, per Winnicott, non ha niente a che fare con il funzionamento psicotico, ma con l’esistenza di parti del Sé che non comunicano con altre parti, o che non sono accettabili per esse. Sono casi più complessi, che possono richiedere più consultazioni; anche il loro ambiente è più complesso, il fallimento o le carenze ambientali possono essere più evidenti e persistenti, e e anche il disordine emozionale dei genitori può essere più grave e persistente.

Vorrei esporre il caso di Charles (‘Charles at 9 years’, CW 10:2:8), un bambino di nove anni che lamentava mal di testa e ‘pensieri’. “Era la sua mente che lo tormentava ed egli iniziava ad avere delle idee a proposito del suo apparato di pensiero. Aveva detto una piccola parte del suo cervello stava prendendo il sopravvento sul resto di lui”.

Stava cominciando a fare dei propositi troppo impegnativi, che non riusciva a raggiungere. Winnicott afferma con forza la necessità di un ‘contatto utile’. Winnicott non ci offre una diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo, i sintomi non vengono letti come segni di una malattia, ma rispettati come un’espressione del bambino, e come comunicazione di una storia evolutiva unica, e della sua sofferenza privata.

Ci viene implicitamente richiesto di astenerci dal cercare una spiegazione, e questa narrazione ci ricorda quanto possa essere tirannico l’intelletto e quanto la mente possa essere un oggetto persecutorio.

Quando comincia il gioco degli Squiggle, vediamo che la capacità di tollerare l’incertezza permette che si stabilisca uno spazio di gioco, un paesaggio in cui le identificazioni crociate (1971) possono rendersi disponibili al gioco, addirittura per giocare con il pensiero che il bambino possa essere una bambina. Dato che questo pensiero appartiene a Winnicott, può essere accettato o respinto senza timore. Quando Charles introduce un dettagliatissimo disegno di un campo di battaglia in cui diversi eserciti stanno combattendo e stabilendo alleanze, Winnicott non fa nessuna interpretazione; al contrario, stabilisce un collegamento tra la descrizione che il bambino fa del gioco e la rigida separazione che egli si sente obbligato a fare tra elementi buoni e cattivi nei disegni. Quando gli viene offerta questa funzione di holding, il ragazzino può usare il disegno, in maniera conscia, come ‘un diagramma della sua mente’. Questo è l’effetto dell’asserzione dogmatica che il disegno era una descrizione della mente del bambino. L’asimmetria tra l’adulto che si prende cura del bambino, e il bambino che dà fiducia all’adulto, acquistano il significato dell’incontro tra holding e integrazione, in modo tale che la mente del bambino può ora essere inclusa nel processo di elaborazione immaginativa del funzionamento del corpo. La ‘rêverie’ di Winnicott dà al ragazzo l’opportunità di accettarlo come Io ausiliario; un’esperienza integrante che può avvenire soltanto se il partner è capace di sognare e creare dei collegamenti. La ‘piccola parte’ del cervello che spaventava il ragazzo, qualsiasi cosa rappresentasse, era così concreta che aveva acquistato qualità quasi psicotiche. Nessuna metafora, avrebbe potuto essere possibile senza l’intervento di Winnicott. Ma, per il solo fatto di esserci, egli aveva potuto tracciare una distinzione tra un diagramma (che era necessario per il bambino) e lo squiggle. Da allora in poi fluisce una sequenza di Squiggles a proposito dei numeri, che permettono al bambino di comunicare quanto si senta a disagio nella posizione di un bambino di nove anni; è allora che Charles può fantasticare di essere un giovane uomo potente. Winnicott a quel punto gli fa domande sui sogni, e quando Charles descrive i suoi sogni in maniera vivida e, insieme ad essi, un acuto stato confusionale legato ad una memoria traumatica. Era questa la ‘parte minuscola’ della sua mente che aveva qualità persecutorie e non poteva essere né ricordata, né dimenticata. Ci furono altri colloqui, ma questo primo incontro fu fondamentale per superare l’impasse.

La terza parte di ‘Consultazioni terapeutiche’ è la più estesa e ricca di casi, ed esplora il lavoro con la tendenza antisociale e con la deprivazione precoce. È un libro nel libro, che ci avvicina all’atto antisociale come forma di comunicazione della storia della relazione tra il bambino e il suo ambiente, gesto organizzato, a metà strada tra la spinta inconscia e una messa in scena della della storia dello sviluppo. L’atto antisociale è fortemente intrecciato ai fenomeni transizionali, ‘così che lo studio dell’uno implica lo studio dell’altra (‘Lily at 5 years’ [CW 10:3:19]). Il bambino che subisce la deprivazione, cioè la perdita traumatica di uno stato di cose soddisfacente, può tollerare l’interruzione e le emozioni che ne conseguono perché può affidarsi a oggetti e fenomeni transizionali. Ma se questi sono ostacolati o disturbati ‘il bambino ha una sola via d’uscita, che è una scissione della personalità, con una metà che è in relazione al mondo soggettivo, e l’altra che reagisce, su una base di compiacenza, con il mondo che preme’ (‘The Deprived Child and How He Can Be Compensated for Loss of Family Life’). L’atto antisociale (enuresi o encopresi, bugia, furto) è un segno di speranza, un tentativo di ricostituire uno stato di cose che è sto prima sperimentato e poi perduto. La delinquenza si installa quando i vantaggi secondari sono troppo forti per potervi rinunciare (dipendenza dall’atto antisociale).

C’è, in questa parte, (caso di Lily) un’affermazione che rappresenta una sorta di testamento clinico: “Sfortunatamente posso guardarmi indietro, al tempo in cui ero un ardente psicoanalista, compiaciuto di aver imparato la tecnica del trattamento dell’individuo, e avrei indicato per [ogni] bambino il trattamento analitico, e, forse, avrei perso di vista la cosa più importante: la riabilitazione della famiglia”.

Per concludere, “Consultazioni terapeutiche” è il frutto di una straordinaria maturità, in cui non si ripudia niente della storia personale dell’autore e della sua traiettoria: in primo luogo la pediatria e la psicoanalisi.

Spero che questa mia lettura di “Therapeutic Consultations in Child Psychiatry” vi abbia trasmesso quello che ho, personalmente, sentito da quando l’ho incontrato: a quasi cinquant’anni dalla sua pubblicazione possiamo scoprire in questo testo qualcosa di sorprendentemente familiare, anche oltre le risonanze che troviamo con gli sviluppi successivi della psicoanalisi e della psicoterapia infantile, della ricerca sullo sviluppo e delle applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Possiamo tornare a leggere questo libro indipendentemente da tutto questo perché queste pagine ci aiutano ad avvicinarci alla complessità della natura umana, con la curiosità e l’umiltà che Winnicott ha testimoniato.