PRINCIPIANTI DI RAYMOND CARVER

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PRINCIPIANTI DI RAYMOND CARVER


La poetica della funzione onirica

 

A cura di Lorenzo Gambacorta

Tempo di lettura 2 minuti

 

 

Principianti è la versione integrale e non rimaneggiata dall’editore della raccolta Di cosa si parla quando si parla di amore, una delle più celebri raccolte di racconti di Carver. Nella maggior libertà espressiva, questa si offre infine come perfetto esempio del modus operandi di colui che è stato definito lo scrittore minimalista per eccellenza. Eppure questa definizione calza fino a un certo punto, perché ogni racconto di Carver alla fine, ha sempre qualcosa che sfugge dal concreto dettaglio dagli scenari quietamente disperati della borghesia americana degli anni ‘60, rappresentati con uno sguardo accorto, cauto, fatto di poche parole, di molte interruzioni, di frasi brevi. Ad un certo momento, in queste pacate descrizioni di una banale normalità, entra qualcosa: si tratta di un particolare, un oggetto magari, un’immagine, un animale, spesso anche solo un pensiero, che apre una breccia nel reale diventando finestra su miriadi di mondi possibili. Non tanto per il protagonista della vicenda, ne per lo scrittore, ma soprattutto per colui che legge, per il quale non può non muoversi qualcosa, una ricerca, istintiva e magari implicita, verso la possibilità che quel che succede assuma un senso. É un vero e proprio esempio di perturbante, Carver, perché è nella normale familiarità di scene comuni che scatta qualcosa di straniante, una rottura nella coazione infinita di schemi sociali. Cosi per esempio, alla fine del primo racconto della raccolta, Perchè non ballate, alla fine uno dei protagonisti pensa: “c’era dell’altro, lo sapeva, ma non riusciva a metterlo in parole”. È la storia semplice di una giovane coppia che compra dei mobili da un vecchio, lui divorziato e alcolizzato. Fine. È banale e non c’è niente, in apparenza, ma invece c’era dell’altro. E mentre alla protagonista del racconto rimane l’impossibilità di metterlo in parole, per chi legge c’è la possibilità che qualcosa di implicito possa essere pensato, o prima ancora, nel lasciarsi andare al racconto che all’improvviso viene spezzato da parole ambigue, sognato. Cosi la scrittura cosiddetta minimalista di Carver assume un altro fine: non è solo scrittura semplice e asciutta, perfetta per essere descrizione di scene comuni, ma ha sopratutto il senso dell’insaturità, di non tentare di riunire nella forma un reale che idealmente possa essere tutto compreso o spiegato, ma semmai di poter sognare infinitamente nuovi mondi, laddove non sembrava esserci senso.