Prendersi cura nell’emergenza
Giugno 13, 2024 2024-09-03 14:34Prendersi cura nell’emergenza
Indice
Presentazione, di Isabella Lapi
1. Il gruppo di ascolto psicoterapeutico AFPP, di Antonella Lumachi
2. Prendersi cura nell’emergenza, di Lumachi A., Barattini S., Buonfiglio G., D’Agostini C., Di Mauro E., Fineschi G., Lapi I., Laudicina G., Lentini S., Lo Bianco D., Peruzzi M., Privitera M.
3. Gli interventi di psicoterapia durante la pandemia da Covid-19. L’esperienza di condivisione nella dimensione gruppale dei terapeuti e altre considerazioni, di Gianfranco Buonfiglio
4. Paura, di Corrado D’Agostini
5. La figura dell’ascolto, di Antonella Lumachi
6. Riflessioni sulla mia esperienza del Covid-19, di Silvia Barattini
7. Alcune riflessioni attorno al vaccino, di Gianluca Laudicina
8. Esperienze di ascolto di persone anziane durante la pandemia, di Maria Privitera
9. Solidarietà e paura: note personali sul servizio di ascolto, di Martina Peruzzi
10. Ascolto e immaginazione, di Esmeralda Maria Di Mauro
11. Riflessioni sull’esperienza di ascolto psicoterapeutico, di Diana Lo Bianco
12. Paura e solitudine, di Antonella Lumachi
13. Quando la consultazione psicologica funge da ponte per ricominciare, di Sara Lentini
14. Un paziente senza fine, di Silvia Barattini
Note bibliografiche degli autori
Isabella Lapi
Presentazione
“Non ho pianto, ho parlato” R.
Il testo che presentiamo raccoglie le esperienze, le riflessioni, le testimonianze, le emozioni, i dubbi, le scoperte del gruppo del servizio di ascolto psicoterapeutico che l’Associazione Fiorentina di Psicoterapia Psicoanalitica ha attivato fin dagli inizi della pandemia covid-19 contro il disagio psicologico emergente; il gruppo ha partecipato anche al servizio di sostegno voluto dal Ministero della Salute, come racconta Antonella Lumachi, coordinatrice del gruppo, nella sua nota storica. Esperienze rilevanti dal punto di vista umano e professionale che dovevano essere narrate e condivise.
Stiamo vivendo in un tempo di pericolo e incertezza, un tempo che non avremmo mai pensato di vivere, in cui è minacciato e messo in discussione il nostro stesso modo di essere al mondo perché si è risvegliata l’antica paura. È quella “paura oscura” di cui parla Corrado D’Agostini nella disamina di questa emozione, profondamente radicata nella fisiologia umana e nell’inconscio, legata alla condizione originaria dell’uomo di essere gettato nel mondo (Heidegger, 1927). La pandemia, con i suoi fenomeni sconosciuti e incontrollabili, ci ha fatto temere di regredire a quello stato primigenio di impotenza vissuto alla nascita (la Hilflosigkeit di Freud, 1895) in cui il bambino si trova inerme e potrebbe morire se non avesse un Altro che si prende cura della sua sopravvivenza (Lapi, 2021): è terribile riviverlo a livello emotivo perché evocativo dell’essere abbandonati da ogni forza protettiva e sentirsi in balìa di eventi mortiferi, che ci mettono di fronte, come scrive Laudicina, a “la caducità dell’essere umano alla quale da tempo non eravamo più abituati a pensare”.
La paura ha fatto esplodere la rabbia e l’odio verso l’Altro, vissuto come potenziale veicolo di contagio, o impositore di regole persecutorie, in un meccanismo difensivo di scissione e identificazione proiettiva collettiva. E allora, abbiamo avuto fenomeni di isolamento estremo, rifiuto delle regole, manifestazioni di piazza, adesione a credenze irrazionali. Questo nostro tempo è stato, però, anche altro: un tempo di lotte comuni, obbedienza alle regole, faticose ma riconosciute come bene per tutti, aiuto alla comunità, solidarietà. Una parte importante della società civile si è impegnata, individualmente e collettivamente, in iniziative di aiuto solidale e volontario, che ci faranno uscire dalla pandemia con il senso non solo di aver patito ma di aver acquisito o ritrovato la bontà del dono sociale1. Tra queste iniziative si colloca il lavoro degli psicoterapeuti che hanno sentito il dovere di impegnarsi a fondo per dare il proprio contributo: tenere aperto il dialogo con i propri pazienti, fino a quel momento accolti nel setting sicuro delle stanze di terapia, poi, con il lockdown, accolti nel setting virtuale della comunicazione on line, senza che la relazione terapeutica si interrompesse o si mortificasse; continuare, nelle aule virtuali, gli impegni di insegnamento ai giovani allievi; mettere a disposizione gratuitamente il proprio tempo e i propri strumenti professionali per chi ne avesse bisogno causa la sofferenza imposta dalla pandemia. L’apertura dei servizi di ascolto psicoterapeutico ha visto noi psicoterapeuti psicoanalitici subito in prima linea, forti della “vocazione sociale” della Psicoanalisi (Nicolò, 2020a, 2020b). Nella sua storia, infatti, la Psicoanalisi ha avuto periodi di forte impegno con la società, per es. sperimentando l’applicazione dei principi della psicoanalisi all’educazione2 o attivando esperienze dirette di aiuto negli anni della guerra3: oggi la pandemia è un’altra guerra che il mondo sta combattendo, e la vocazione sociale della Psicoanalisi è tornata a farsi sentire. Ne rende bene l’idea Martina Peruzzi, che ricorre a un’ immagine metaforica forte: la scena centrale di un film catastrofico in cui, quando tutto sembra perduto e la paura sembra vincere, ecco che accade qualcosa che riaccende la speranza, e arriva qualcuno, arrivano i rinforzi, si trova un mezzo insperato per sopravvivere. Così la nostra esperienza di ascolto, e le tante esperienze di solidarietà attiva che la parte più vitale della società ha messo in atto, sono state il mezzo per sopravvivere, per aiutarci non da soli ma insieme agli altri, antidoto al dolore e alla paura. Nel suo intenso scritto Peruzzi esprime bene il senso di recupero della solidarietà e del senso di comunità: “l’aiutarci e il soccorrerci a vicenda, ognuno con il suo modo e secondo la sua possibilità.”
La vocazione sociale si intreccia con la vocazione etica del prendersi cura psicoanalitico, inteso come processo che coinvolge l’individuo e, insieme, l’ambiente delle sue relazioni, per sviluppare e far crescere le potenzialità di contatto con gli altri, per stare bene con loro (Ferruta, 2020). Noi ci abbiamo provato aiutando a riannodare i fili di esistenze che la pandemia stava spezzando, cercando dentro di noi la fiducia per condividerla con chi sentiva di non averne più, accogliendo dolori profondi, a volte di intensità quasi intollerabile, avvicinando solitudini, offrendo spazi di relazione.
E sopra ogni cosa, toccando apertamente la paura, questa terribile prigione dell’anima, ancora più spaventosa quando l’eventualità della morte diventava concreta e vicina (come è stato per G., la giovane donna seguita in consultazione da Antonella Lumachi, il cui marito, madre e suocera si sono ammalati di covid). Proprio per l’eccezionalità delle circostanze, emozioni così primitive, basiche, esplosive, come la paura, hanno potuto essere bonificate anche in consultazioni brevi come le nostre, nelle quali è stato spesso possibile raggiungere quella sintonizzazione profonda propria dei legami psicoterapeutici a lungo termine, come conclude D’Agostini. E forse anche la paura, contenuta, gestita a piccole dosi, è rientrata negli argini dell’adattamento, diventando quello che anche è: strumento di aiuto per non esporsi al rischio e seguire regole di precauzione e protezione della vita.
Nello svolgere le consultazioni ci siamo confrontati con problemi tecnici rilevanti a cui abbiamo cercato di dare una risposta, ma la cui portata va senz’altro oltre l’esperienza del servizio ascolto, meritando una riflessione più approfondita e continuativa. Le consultazioni erano fatte da tre o quattro colloqui al massimo, fuori dal setting abituale, medium nuovi per il lavoro psicoterapeutico come videochiamate o solo telefonate, incontri al buio di presentazioni e informazioni preliminari, voci da tutta Italia, milieu sociali e culturali a noi estranei, turbolenze emotive immediate e intense, a fronte dell’avvertire inadatto o inopportuno il ricorrere all’ interpretazione e agli altri nostri strumenti abituali (il lutto della nostra tecnica, come viene detto nella relazione collettiva “Prendersi cura nell’emergenza”): in questa spiazzante complessità dovevamo quindi, scegliere quali strumenti usare riadattando quelli usati da sempre o inventandone di nuovi.
Da subito abbiamo avvertito che l’ascolto era il fulcro dell’intervento: Antonella Lumachi ci conduce finemente nell’arte dell’ascoltare terapeutico come attenzione rispettosa e empatica a ciò che vuole comunicarci il paziente, e al contempo, come ascolto della propria risonanza emotiva, per raggiungere nel dialogo la sintonizzazione affettiva che permette la cura; strumento del dialogo è stata la voce, veicolo “primordiale” di emozioni e affetti, reso ancor più potente dalla privazione degli altri canali sensoriali (per le consultazioni, svolte a distanza, era usato prevalentemente il telefono).
Il primo problema era decodificare velocemente la domanda per focalizzare l’intervento modulandolo sul bisogno, se per es. svolgere o no tutti i colloqui, e con quale cadenza, se inviare o non inviare ai servizi pubblici, se consigliare di intraprendere o riprendere – come nel caso presentato da Sara Lentini, un intervento psicoterapeutico a lungo termine. La collega Lentini ci racconta, infatti, come, grazie all’ascolto e all’incoraggiamento della terapeuta, il signor S. sia riuscito a riprendere il percorso terapeutico personale, che credeva interrotto definitivamente a causa della pandemia, e, con esso, a riprendere con fiducia anche il proprio percorso di vita.
Nella conduzione delle consultazioni, diversi di noi si sono affidati alla propria capacità immaginativa per sentire più da vicino il paziente – “tessendo pensieri e immagini”, per dirla con Ferro (Ferro, 2014) o, con Ogden (2016), usando il “pensiero onirico”. Esmeralda Di Mauro “sogna” la signora con cui parlava al telefono vedendola in cucina con i fogli/emozioni/pensieri sparpagliati sul tavolo rotondo che chiedevano riordino; quando l’altra paziente la chiama dal giardino pubblico, sogna di assaporare con lei il “vento delicato, l’aria leggera, la ritrovata libertà”.
Al “pensare come sognare”4 si affida anche Diana Lo Bianco per stabilire il contatto profondo con la violenta rabbia di un giovane “ritrovandosi sulla spiaggia insieme a lui” o, “entrando nella casa dalle persiane abbassate” causa la paura del virus di una signora anziana, per immaginare per lei, e con lei, la possibilità di far entrare la luce e riprendere a vivere. Abbiamo incontrato molti anziani che alla solitudine della vecchiaia aggiungevano la solitudine del lockdown, con i legami familiari e relazionali sospesi; per loro la consultazione è stata opportunità di sentire di nuovo un contatto, mettere in fila i ricordi, ritrovare la speranza di andare avanti. Centrale, specie in questi pazienti anziani, era la tematica del trauma: il trauma attuale della malattia e della morte per covid ma anche le esperienze di drammi e lutti pregressi che l’esperienza della pandemia portava in superficie. Le storie di A. e R., raccontate con delicatezza e empatia da Maria Privitera, ci parlano infatti, di traumi passati e traumi presenti che nello spazio della consultazione hanno trovato espressione e ri-significazione. Ovviamente, non è stato possibile affrontare e risolvere tutto: in certi casi la sofferenza delle persone che si rivolgevano al servizio andava oltre le reazioni alla pandemia e al lockdown, erano dolori psichici troppo antichi, troppo estesi, dovuti anche a psicopatologie croniche; il servizio, allora, come illustra la difficilissima situazione clinica presentata da Silvia Barattini, ha dovuto farsi da parte, in piena consapevolezza del senso del limite, che risponde a un principio etico e deontologico fondamentale nella nostra professione di psicoterapeuti. Quando invece, era necessaria, e accettata dal paziente, una presa in carico a lungo termine, il servizio ascolto si è adoperato per l’invio ai servizi pubblici di salute mentale.
La nostra risonanza emotiva di terapeuti non poteva che essere molto forte, la sua intensità trapela dalle righe di questi scritti. La pandemia ha collocato la relazione terapeutica nella condizione molto particolare in cui terapeuta e paziente condividono gli stessi rischi, le stesse paure, le stesse incertezze, a volte, lo stesso ammalarsi, come è accaduto a Silvia Barattini. La collega racconta, con grande spontaneità affettiva, che la sua malattia ha aiutato i pazienti alla presa d’atto della realtà del pericolo e della possibilità di affrontarlo con forza e determinazione; al contempo, però, le ha fatto sentire che essi aiutavano lei standole vicino e riuscendo a “restituire la cura che ho dato loro”. Mai come in queste circostanze odierne, siamo “guaritori feriti” (Gadamer, 1993) che condividono con i pazienti il dolore della stessa condizione umana, coinvolti con la propria soggettività ma che, proprio per questo coinvolgimento, possono comprendere la soggettività ferita, malata, dell’Altro per prendersene cura5.
Il senso dell’aiuto dato e ricevuto è racchiuso nelle parole finali di R., una delle pazienti di Maria Privitera, “Non ho pianto, ho parlato”: nella nostra accoglienza le emozioni dirompenti hanno trovato “le parole per dirlo”6 ricomponendosi in una narrazione comprensibile e condivisa. Certo, nelle consultazioni è accaduto anche di piangere, ma quello che ha contato sono state le parole nella musicalità della voce, pensate e pronunciate, ascoltate e interiorizzate, trasformative dell’esperienza. Anche noi psicoterapeuti coinvolti nel servizio ascolto abbiamo trovato “le parole per dirlo” nel ritrovarci settimanalmente come gruppo: il gruppo ha funzionato come contenitore per metabolizzare “contenuti mentali e emotivi non ancora simbolizzati”, e fornire sostegno e aiuto al lavoro con i pazienti tramite l’attivazione del pensiero gruppale – come ben spiega Gianfranco Buonfiglio, collocando la nostra esperienza nel quadro più vasto degli effetti della pandemia e dei suoi possibili antidoti (e non ultima, tra gli antidoti, la scrittura!). In tutti gli scritti di questa raccolta ricorre il tema dell’affidarsi e del fidarsi come stati centrali della nostra esistenza umana, ancor più importanti nei periodi difficili di stress individuale e sociale (come mette in luce Laudicina nelle sue originali riflessioni sui vaccini), e insieme a questo, corre la speranza, che non è mai venuta meno. Questa speranza si declina come tensione verso il comprendere, l’affrontare il cambiamento senza lasciarsi sopraffare dalla paura, con fede nel nostro metodo di lavoro e aderenza alla realtà. L’uomo possiede una grande potenziale ricchezza, la spinta al cambiamento, e pur sapendo da psicoterapeuti, quanto il cambiamento spaventi e venga ostacolato da tante e forti resistenze psichiche, crediamo che sia giusto mantenere sempre fiducia in esso come motore positivo delle persone e della società. Il servizio di ascolto è un esempio del contributo, piccolo ma significativo, al cambiamento positivo che noi psicoterapeuti psicoanalitici possiamo dare se ci mettiamo al servizio della comunità. Ci guidano in questo, i principi che costituiscono i fondamenti della nostra professione, ben riassunti dalle parole di Nancy McWilliams (2004), che ne sottolinea la valenza sociale in quanto “aspetti vitali” e vitalizzanti:
“Curiosità e meraviglia, rispetto per la complessità, disposizione a identificarsi empaticamente, valorizzazione della soggettività, riconoscimento dell’attaccamento e disposizione alla fede – sono degni di considerazione non solo come componenti della sensibilità psicoanalitica ma anche come correttivi per alcuni aspetti più distruttivi e alienanti della vita contemporanea.”
1 Come afferma Lorena Preta, la cultura del dono come forma di scambio tra persone e gruppi sociali alimenta i legami sociali; sull’etica del dono in generale, vedi il fondamentale saggio di Marcel Mauss e il pensiero etico-economico di Amartya Sen, mentre sulle forme che il dono ha assunto nell’attualità della pandemia, vedi il saggio di Fabrizio Dei.
2 Pensiamo alla prima ardita sperimentazione dell’asilo di Mosca organizzato da Vera Schmidt (1921-1925) ma anche al lavoro di educazione dei genitori che Donald Winnicott, Susan Isaacs, Bruno Bettelheim, Françoise Dolto e tanti altri psicoanalisti hanno portato avanti nel tempo.
3 Alludiamo, come ricorda anche Lumachi, al lavoro che dal 1941 Claire e Donald Winnicott intrapresero con i bambini evacuati nell’Oxfordshire, e gli Asili di Guerra di Hampstead creati da Anna Freud.
4 Citiamo a questo proposito Silvia Fano Cassese che ben riassume le parole di Ogden: “ ‘Talking as dreaming’ è una forma di improvvisazione, una conversazione, che può spaziare su qualsiasi argomento, in cui l’analista partecipa ai “sogni non sognati” del paziente con le proprie associazioni libere ed auto-riflessioni, aiutandolo così a “sognarsi in esistenza (“dream himself more fully into existence)”.
5 Gadamer, nel suo Dove si nasconde la salute, usa la metafora del guaritore ferito come figura centrale della nuova episteme della medicina basata sulla relazione medico-paziente e sul riconoscimento delle implicazioni soggettive del medico nella cura; il libro ha una brillante introduzione di A.Grieco e V.Lingiardi.
6 ci riferiamo al celebre libro di Marie Cardinal che resta uno dei più riusciti diari di una psicoanalisi.
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