L’altro dentro di noi
Ottobre 4, 2021 2024-06-13 12:04L’altro dentro di noi
L’Altro dentro di noi,
Intervento al seminario,
“Diffidenza, paura dell’Altro. Un nemico invisibile”
AFPP
22 settembre 2021
Isabella Lapi
“Piú nero del nero, sono piú nudo;
solo da apostata sono fedele;
sono te quando sono io.”
Paul Celan
“Per trovare il paziente
dobbiamo cercarlo dentro di noi”
Christopher Bollas
“Dichiariamo di adottare
la cultura del dialogo come via,
la collaborazione comune come condotta,
la conoscenza reciproca come metodo e criterio”.
Papa Francesco e
Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb
L’Io e l’Altro, il Singolo e il Multiplo, l’Uguale e il Diverso costituiscono un legame totalizzante di interdipendenza, in perpetua e mutevole ricerca di equilibrio tra immedesimazione e separatezza, tra desiderio e fuga.
È dall’Altro che nasciamo: l’Altro è l’ambiente uterino, è il cordone che ci nutre e ci lega, è la mente della madre che contiene il bambino-oggetto interno = un corpo dentro un altro corpo, una mente dentro un’altra mente, un Io dentro un Tu… un mistero, una sfida.
“Non esiste quello che chiamiamo neonato” ( senza la madre) ci disse Winnicott, affermazione provocatoria e quanto mai vera perché è solo nel rispecchiamento negli occhi della madre che il bambino può incontrare la propria soggettività e cominciare a costruire se stesso. E sempre nella vita, ogni incontro sarà un confronto con l’Alterità, la quale – ricorda Ogden (1994), “non ci permette distrazioni, la percezione dell’altrui identità, una volta percepita, non ci permetterà di rimanere ciò che eravamo”.
Anche la Psicoanalisi è stata attraversata, fin dal suo nascere, dall’Altro, e ha creato una teoria per comprendere il percorso evolutivo e la trasformazione di noi nella reciprocità relazionale delle identificazioni proiettive e introiettive: l’Altro è dentro di noi, noi siamo dentro l’Altro, siamo soggetti e al contempo, oggetti, stretti nella necessità gli uni degli altri, legati insieme da sentimenti potenti.
Tra questi, la Paura, e, direttamente proporzionale a essa, l’odio, veicolati dall’identificazione proiettiva maligna che attribuisce all’Altro quel qualcosa indesiderato di nostro, di cui abbiamo bisogno di liberarci, e poi, lo costringe dentro i rigidi confini della nostra proiezione. Così l’Altro diventa il persecutore da temere, il persecutore da perseguitare: il nero e il migrante – contro cui si costruiscono muri ( “costruzioni di paura! lunghe quasi mille KM solo in Europa! ), il portatore del contagio, ora che la pandemia ha rotto i confini protettivi del nostro ‘Io-pelle’ ( anche nella stanza della terapia…), e poi, l’omosessuale, la donna – uccisa ogni giorno, o chiusa dentro il burka, e ancora, il morente, che presentifica la nostra finitezza…. una serie potenzialmente infinita di oggetti, che spesso, e non è un caso, sono gli ‘ultimi’ della terra, i più credibili nell’assumersi la parte dell’estraneo da perseguitare.
Afferma Bollas (2028) “La mossa paranoide è un’azione mentale incredibilmente adattiva: è un ritiro dalla complessità della situazione e dalla realtà degli altri esterni, a vantaggio di un’intensificata relazione intrasoggettiva”. Ci chiudiamo dunque in noi stessi per paura, eppure l’estraneo che temiamo, il nemico, è prima di tutto dentro di noi. La paura dell’Altro nasce, infatti, da nuclei interni profondi: l’estraneità è radicata in noi perché grandi parti della nostra mente sono ignote a noi stessi in quanto inconsce ( gli ‘ospiti stranieri’ le chiamò Freud avvertendoci che “l’Io non è padrone in casa propria!, e non furono parole rassicuranti! ). Ma la paura più forte scaturisce dal fantasma perturbante del Doppio, “cortocircuito tra estraneità e familiarità” (Prezzo, 2020) con un Altro così vicino, così simile a noi da rischiare di rompere i confini di noi stessi e perderci in lui in una fusionalità confusiva. In questa nostra “età dello smarrimento” come l’ha chiamata
Bollas, ciò che sentiamo di smarrire è proprio la nostra identità – viviamo una “disperazione identitaria” (Foresti, 2020) che smuove disagi e patologie nuove, e fenomeni sociali anche estremi, come l’identificazione adesiva e conformistica di gruppo, la xenofobia, il genocidio.
Ma al lato oscuro si contrappone, conflittualmente, combattivamente, il lato del desiderio che ci spinge verso l’Altro per richiedere e dare amore, nella vita personale come in quella sociale: all’odio si contrappongono la preoccupazione per l’oggetto e le spinte riparative. Esistono in terra e in mare le azioni di bene, di aiuto e solidarietà, alcune grandi e potenti,
altre piccole e quotidiane, alcune fatte anche da noi professionisti – come i servizi di consultazione terapeutica volontari e gratuiti contro il disagio creato dalla pandemia2. Potrebbero essere di più queste azioni, sta a ognuno di noi farle crescere.
Ha un ruolo attivo anche in tutto questo, la Psicoanalisi?
Non so se la Psicoanalisi di per sé abbia una “vocazione sociale! – come adesso è di moda dire con uno slogan attraente ma assai semplificato. Se ci riflettiamo bene, la “vocazione sociale! ce l’hanno le religioni, le ideologie, le organizzazioni politiche o umanitarie, la Psicoanalisi non è né l’una né le altre, né deve diventarlo – queste cose lasciamole ‘ai pastori’ come ebbe a dire Freud. Cosa offre, invece la Psicoanalisi? La Psicoanalisi offre un interpretazione critica dei fenomeni in cui si esprimono la vita individuale e la vita collettiva, e contribuisce a darvi senso e significati alla luce della sua teoria. E offre, insita nel suo stesso metodo, una base etica profonda a cui possiamo attingere. L’etica psicoanalitica ci parla della Verità – la verità dei sentimenti, dei conflitti, delle azioni, la verità nascosta dalle difese psichiche, verità da perseguire sempre nel rispetto del Non dimentichiamo che la stessa Psicoanalisi nel corso della storia è stata oggetto di paura, odio e ostracismo: i nazisti bruciarono in piazza i libri di Freud, Stalin la bandì e chiuse le associazioni psicoanalitiche sovietiche, la Chiesa cattolica in Italia, fino a tutti gli anni ’50, considerava peccato rivolgersi a uno psicoanalista, e ancora oggi, in alcune aule universitarie si irride, senza conoscerla, la Psicoanalisi.
Nel corso della storia abbiamo visto psicoanalisti all’opera per il bene sociale: a partire da Freud, che auspicava che un giorno l’assistenza psicologica sarebbe stata accessibile e gratuita per tutti, e poi, l’esperienza dell’asilo di Anna Freud durante la guerra, e il programma di aiuto ai bambini sfollati da parte di Winnicott (e, non dimentichiamola, della moglie Claire), per fare esempi storici sempre citati. E non sono stati i soli: venendo a un esempio più vicino a noi, voglio ricordare l’esperienza del Consultorio popolare del quartiere Niguarda, fatta da Enzo Morpurgo nella Milano degli anni ’60, per fornire assistenza psicoterapeutica completamente gratuita alla classe operaia ( Morpurgo et al., 1973). Morpurgo, per altro, è stato uno dei primi a parlare del dialogo psicoanalitico. l’Altro, nostro paziente, e di noi stessi come terapeuti, astenendoci sempre dal giudizio censorio, nella rinuncia all’onnipotenza e al narcisismo; è in questo, la Psicoanalisi, un’Etica del Limite, che ci induce ai sentimenti dolorosi della Posizione Depressiva, alla consapevolezza, al controllo degli impulsi, senza perdere mai la capacità empatica di percepire l’Altro. Componenti etiche laiche che, certamente non da sole, ma unite a quello che noi ci siamo costruiti come persone, con le scelte ideologiche e/o religiose che abbiamo compiuto, possono spingerci a prendere posizione e pronunciarci contro i fenomeni gravi che accadono nel mondo, e al fare azioni per il bene collettivo. Con questa chiarezza, su questi terreni, la Psicoanalisi può dialogare fecondamente con le ideologie, la politica, le altre discipline, e con le religioni – perché il dialogo è un valore, non il solipsismo. Se si scopre di avere contenuti e principi comuni o simili, il dialogo è facile; difficile è quando la diversità dell’Altro è molto profonda, e ci appare inaccettabile. Allora, si può e si deve dialogare con ogni tipo di diversità? O ci sono limiti, perché c’è una diversità che è un ‘male’ a cui dobbiamo chiudere la porta? Le religioni hanno la loro risposta, come per es. Papa Francesco nella sua enciclica Fratelli tutti, ma io voglio chiederlo a noi terapeuti: accettiamo sempre e comunque ogni tipo di alterità nella nostra stanza? Per noi, i pazienti sono tutti uguali o qualcuno è ‘più uguale’ ( per citare Orwell) e qualcuno invece, è più ‘altro’ ? Nella nostra stanza di terapia, incontriamo l’Alterità, fuori e dentro di noi, e con essa, incontriamo certamente la paura e l’odio. Ma nel pieno coinvolgimento intersoggettivo e dei flussi interpsichici della seduta, incontriamo anche il “terzo analitico!, creazione nuova fatta da entrambi, terapeuta e paziente insieme, ma che non appartiene né all’uno né all’altro e che trasforma tutti e due. Siamo noi disposti, sempre e autenticamente, ad accogliere la trasformazione anche di noi stessi nell’esperienza analitica? così potentemente descritta da Ogden (1994): “L’Analista deve essere preparato a distruggere e a essere distrutto dalla diversità della soggettività dell’analizzando”. Si tratta di una distruzione necessaria ma difficile che richiede, paradossalmente, di non essere mai completa, di consentirla e assecondarla, e al contempo, confinarla. Prosegue infatti, Ogden “ L’analista deve ascoltare attraverso il fragore della distruzione stando ai suoi confini, non essendo mai certo di dove siano questi confini”. Sono i paradossi infiniti del nostro mestiere impossibile – sono le ‘domande infinite’ ( come recita il titolo del nostro programma scientifico) che l’incontro con l’Altro ci pone – nella nostra vita di persone, soggetti morali appartenenti al mondo, e nella nostra professione, anche dopo la seduta, quando l’Altro esce fuori dalla porta ma resta dentro di noi.
BIBLIOGRAFIA
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Orwell G. (1945 ), La fattoria degli animali, Garzanti, Milano, 2020.
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editoriale, Milano.
Prezzo R. ( 2015), Verità clandestine. L’ «Unheimliche» secondo Freud e Zambrano, in Aurora n.
16, 2015, p. 88-95.
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