Il segreto del terzo
Giugno 29, 2017 2024-06-12 12:55Il segreto del terzo
di Vittorio Vandelli
Il tema del transfert sulle teorie rimanda al tema centrale in psicoanalisi di come poi ogni terapeuta abbia alla fine fatto i conti con le proprie radici formative, ovvero come ne abbia elaborato il lutto.
La metafora è sempre quella del mito di Edipo, trovatosi a fare i conti con i triplici aspetti delle figure genitoriali,
[rappresentati
• Ø per quanto riguarda la MADRE da:
1 MEROPE, regina di Corinto, madre adottiva, ma anche – dal punto di vista simbolico – vera madre, che si è presa cura di Edipo neonato assumendo responsabilmente un ruolo materno;
2 GIOCASTA, regina di Tebe, madre naturale, ma in realtà non madre, in quanto ha abbandonato il figlio, incurante del suo destino, e che assume su di sé le valenze simboliche dell’attitudine matriarcale endogamica, inglobante ed invischiante;
3 ERA, figura materna divinizzata, idealizzata, custode dei matrimoni e dei parti, che per punire Laio per il suo rifiuto di assumere responsabilmente il ruolo di marito e padre ha mandato dalla Libia la SFINGE (mostro nato da un rapporto incestuoso tra Echidna ed il cane Ortro, suo figlio), che richiedeva un continuo tributo in vite di giovani tebani; e
• Ø per quanto riguarda il PADRE da:
1 POLIBO, re di Corinto, padre adottivo di Edipo, ma vero padre in quanto ha assunto responsabilmente un ruolo paterno, teso a promuovere l’individuazione e l’emancipazione esogamica del figlio;
2 LAIO, re di Tebe, padre biologico, ma simbolicamente un non padre, non avendo avuto scrupoli a sacrificare la vita del figlio per non incorrere nell’ineluttabile confronto-scontro generazionale per l’affermazione della sua individualità;
3 APOLLO, figura paterna divinizzata e idealizzata, protettore dei fanciulli, che punisce Laio per il suo comportamento irresponsabile nei confronti dei figli propri (Edipo) e altrui (Crisippo), facendo diventare fato ineluttabile il destino auguratogli da Pelope (padre di Crisippo, rapito da Laio che si era invaghito di lui)]
dove il terapeuta rischia di rimanere attaccato alle “gonne-teorie della sua mamma metapsicologia” (Ferro, 2006), o di intrattenere con le teorie rapporti incestuosi destinati a generare una “stirpe maledetta”; oppure è disposto ad ingaggiare una lotta contro una teoria-padre, detentrice del Verbo, della Verità, ma che non accetta che il figlio vada oltre in una personale ricerca creativa. L’istituzione psicoanalitica sa bene quanti suoi figli promettenti – soprattutto ai suoi esordi – siano stati sacrificati sull’altare dell’ortodossia freudiana. Ma alla fine non ha potuto impedire che venissero alla luce il pensiero kleiniano, e poi quello bioniano e tutti gli sviluppi successivi che animano il panorama psicoanalitico contemporaneo.
Nel mio iter formativo ho incontrato varie teorie-madri, molto seducenti, e vari padri-formatori che mi hanno aiutato a prenderne le distanze incoraggiandomi a costruire una teoria (e relativa tecnica) personale, che informa la prassi dei trattamenti psicoterapeutici di gruppo, che porto avanti da oltre venti anni, prima in ambito di servizi pubblici di salute mentale, poi – dal 1997 – in ambito privato libero-professionale, e che cercherò di illustrare brevemente, per rendere un’idea di qual è il mio rapporto con le teorie e dell’uso che ne faccio, utilizzando per questo anche un po’ di materiale clinico.
In estrema sintesi
– fedelmente all’enunciato di Bion secondo cui “il valore psicoanalitico non sta nel numero delle teorie che l’analista può dominare, ma nel numero minimo con le quali egli può far fronte a ogni contingenza che gli può capitare di incontrare” (Bion, Apprendere dall’esperienza, 1962), e avendo ben presente che lo stesso nella sua griglia ha collocato le teorie nella fila 2, quella di Tiresia, quella delle bugie o dei pregiudizi (preconceptions), come tutto ciò che ci protegge dall’ignoto, che è ciò che più ci terrorizza e che sempre vorremmo tentare di evitare, esorcizzare, mappare con false carte –,
nel mio modello personale ho cercato di coniugare elementi convergenti tratti dalle teorie e dagli insegnamenti di questi AA (oltre agli sviluppi dei loro epigoni):
1 BION (teoria dei gruppi: gruppi di lavoro e gruppi in assunto di base; teoria dell’apparato mentale: elementi β, funzione α, elementi α, pensiero onirico della veglia, ecc., apparato per pensare i pensieri; ♀♂; Ps ↔ D; O; Griglia; Legami L, H e K (+) e (–); capacità negativa):
2 PICHÓN-RIVIÈRE e BAULEO (che ne ha sviluppato le teorie) (Teoria del Gruppo Operativo e sue applicazioni in ambito clinico, istituzionale e formativo; funzioni di Coordinatore e Osservatore; concetto di Compito; concetto di Emergente; 3 D: Deposito, Depositario, Depositante; teoria degli ambiti; istituito/istituente;
3 coniugi M. e W. BARANGER (concetto di Campo come Gestalt, coi suoi tre livelli di strutturazione: il setting, la transazione verbale manifesta, la fantasia inconscia, ovvero la struttura latente alla quale si accede col lavoro analitico; concetto di Bastioni; successivi sviluppi del concetto di Campo da parte di A. Ferro);
4 BLEGER (Simbiosi; Ambivalenza; Ambiguità; Sincretismo; Setting; posizione Glischrocarica o del nucleo vischioso; corpo come “buffer”);
5 MELTZER (Stati sessuali della mente; processo psicoanalitico; Claustrum);
6 e ovviamente, sopra tutti, FREUD (OSF).
gli elementi α e β che si producono all’interno del gruppo vanno a determinare la natura dei legami col compito, di carica (+) o (–), a seconda del prevalere del flusso di elementi α o β rispettivamente. Ai legami L (Love), H (Hate) e K (Knowledge) descritti da Bion (e che prendono il posto delle spinte pulsionali e della libido concepite e descritte da Freud) mi sono permesso di aggiungere il legame A (Aesthetic), in accordo col pensiero di Meltzer, che ha descritto come anche l’impatto estetico col mondo (in primis con la madre) dia luogo ad un legame conflittuale con l’oggetto che può influire in maniera determinante sulle altre dimensioni del legame[1].
Nella Fig. 2 esemplifico invece schematicamente quanto immagino succedere quando i gruppi si strutturano secondo i tre assunti di base descritti da Bion, con la conseguenza che lo svolgimento del Compito è ostacolato dalla fantasia dell’esistenza di un nemico (assunto di base attacco-fuga), oppure dalla fantasia che la sua soluzione verrà rivelata, quando sarà il momento, dalla figura da cui si dipende fiduciosamente e acriticamente, depositaria della Verità (assunto di base di dipendenza), o infine dalla fantasia della sua soluzione ad opera di una figura messianica concepita da un sottogruppo particolarmente specializzato e selezionato (assunto di base di accoppiamento).
Nel primo caso sono implicate le valenze aggressive, proprie del legame H, che sono però di segno (–) in quanto operanti in Ps; nel secondo quelle epistemofiliche, proprie del legame K, anche qui di segno (–) perché orientate ad aderire a verità pregiudiziali e non ad apprendere dall’esperienza; nel terzo dominano quelle libidiche ed estetiche, proprie dei legami L ed A, di segno (–) perché falsamente orientate a promuovere il nuovo, a ricercare soluzioni creative e originali ai problemi del gruppo.
Coerentemente al pensiero degli AA ai quali ho fatto riferimento, si vede bene come le stesse considerazioni possano valere sia per i gruppi (intesi come “totalità”), quanto per gli individui (operanti nelle loro relazioni oggettuali con il proprio “gruppo interno”).
Nella Fig. 3 rappresento invece quello che idealmente dovrebbe accadere nel caso di un gruppo terapeutico coordinato con tecnica operativa: l’atteggiamento non passivo e neutrale, ma attivamente astinenziale del terapeuta (o Coordinatore, ma non leader, in quanto è nel gruppo, ma non vi partecipa allo stesso titolo dei pazienti, o Integranti, nel senso che il Compito del primo è diverso dal Compito dei secondi), in virtù della sua auspicabile capacità negativa di sostare nell’incertezza e nel dubbio (cioè in Ps), creerebbe una perturbazione del campo, una sorta di “vuoto” (♀) in grado di attirare a sé ed accogliere gli elementi β (♂), che verrebbero poi trasformati – grazie alla funzione di rȇverie terapeutica – in elementi α (♂) da restituire al gruppo (♀) in forma narrativa, in accordo col “modello a forte impronta narrativa dell’intreccio delle emozioni del campo attuale come luogo di tutti i precipitati storici e fantasmatici di paziente [o gruppo] e analista” di A. Ferro (1999, 105).
Questo processo modificherebbe le forze in campo in modo tale da intensificare le cariche (+) dei legami col Compito, sostenute dagli elementi α, e da ridurre quelle (–), sostenute dagli elementi β, responsabili delle strutturazioni in assunto di base del gruppo.
Riporto, come esemplificazione clinica di applicazione di questo modello, una vignetta tratta da una psicoterapia di gruppo da me coordinata con tecnica operativa, con la presenza di un’osservatrice non partecipante (la Dott.ssa Giuliana Boni di Modena, che da oltre dieci anni è mia preziosa collaboratrice in queste esperienze cliniche e nella loro elaborazione teorica). Questa terapia è iniziata in Gennaio 2011, ed è stata prevista la conclusione in Giugno 2013 fin dal momento della “chiusura” del gruppo[2]. Gli integranti all’inizio erano sette, tre femmine e quattro maschi, di età compresa tra i 28 e i 65 anni, in cura per disturbi di varia natura, tutti anche in terapia psicofarmacologica e con precedenti trattamenti individuali di varia durata. Il setting prevede sedute di 1h e 30’ con regolare cadenza settimanale, ed una serie di regole contrattuali esplicitate all’inizio in modo chiaro ed inequivocabile, al fine di evitare ogni ambiguità (come raccomandato da Bleger e altri AA) e di definire in modo chiaro i limiti del campo (secondo le indicazioni dei Baranger), che tra le altre regolamentano
• Ø il pagamento (viene pagata a fine mese una cifra fissa per ogni seduta del mese, indipendente dal numero di integranti presenti ad ogni seduta),
• Ø prevedono il divieto di tenere acceso il cellulare durante le sedute (salvo evenienze eccezionali, nel qual caso deve esserne data comunicazione all’inizio della seduta),
• Ø il pagamento di una quota fissa per seduta indipendente dal numero di integranti presenti (in un’unica soluzione a fine mese) e
• Ø raccomandano di evitare contatti di qualunque tipo tra gli integranti al di fuori delle sedute, informando il gruppo di eventuali fortuiti incontri avvenuti occasionalmente tra una seduta e l’altra.
Elementi di contesto delle sedute in esame – quelle del mese di Gennaio – sono:
1 un’integrante, Riccarda (♀), in occasione dell’ultima seduta prima delle vacanze di Natale aveva annunciato la sua decisione di interrompere la terapia per ragioni economiche, comportando per i rimanenti sei integranti un aumento relativo della propria quota (che non era più tonda, ma con un (3) decimale periodico);
2 un’integrante, Laura (♀), alcuni mesi prima in una seduta aveva comunicato che avrebbe tenuto acceso il cellulare, per qualche preoccupazione per il figlio, che in mattinata aveva subito un intervento chirurgico, e avrebbe potuto aver bisogno di lei;
3 era successo più volte nelle ultime settimane che uscendo dallo studio, una mezz’ora dopo la fine della seduta di gruppo, nei pressi del portone d’ingresso io e la mia collega sorprendessimo due o tre integranti (e tra questi Laura c’era sempre) ancora lì a chiacchierare tra loro, senza che poi di questo fosse data notizia in gruppo;
4 nella prima seduta dopo le vacanze di Natale Laura aveva portato pasticcini ed una bottiglia di spumante per festeggiare il suo 50° compleanno;
5 nella seconda seduta erano stati riferiti diversi incontri fortuiti tra vari integranti nella settimana precedente, ma non si era fatto riferimento agli incontri post-gruppo sotto lo studio;
6 sempre nella seconda seduta era successo che Laura, mentre Emma (♀) stava raccontando un sogno (vedi punto successivo), fosse uscita alcuni minuti dallo studio per rispondere a ripetute chiamate che aveva ricevuto dal marito sul cellulare silenziato;
7 il sogno di Emma: “Dovevo andare a Roma con un gruppo di persone. C’erano delle tappe: si faceva un tratto a piedi, poi bisognava tornare indietro a recuperare la propria macchina. Ero perplessa, ma lo facevo. A Roma compariva un tipo (di cui mi ero molto innamorata anni fa, non ricambiata), che diceva che ci avrebbe pensato lui ad organizzare il pranzo. Ci si doveva sedere tutti intorno ad una tavola. Io cambiavo più volte posto, senza poi riuscire a mangiare le lasagne che intanto venivano servite. Alla fine protestavo per non essere riuscita a mangiare le mie lasagne – uno dei presenti sosteneva che invece le avevo mangiate – e in più non trovavo più la mia borsetta, persa in tutti quegli spostamenti di sedia. Infine venivano serviti dolci di poca soddisfazione. La parte del sogno della tavolata veniva prima di quella del viaggio”;
8 in quella seduta avevo rilevato che lasciare il cellulare acceso senza preventivamente informarne il gruppo, così come gli incontri “clandestini” al di fuori delle sedute, rappresentavano delle trasgressioni alle regole date all’inizio della terapia, di cui valeva la pena parlare per ricercarne il senso.
Nella terza seduta del mese scoppia un conflitto tra le due (♀) del gruppo: appena iniziata la seduta Emma (50 anni, personalità passivo-aggressiva, nubile e senza figli, in cura privatamente da oltre 20 anni per una depressione cronica – Distimia secondo il DSM-IV – con ricorrenti episodi depressivi maggiori), probabilmente sentendosi autorizzata dal mio intervento della settimana precedente, dice – rivolta a me, d’un fiato – che le ha dato particolarmente fastidio l’interruzione provocata la volta scorsa dall’uscita di Laura dallo studio mentre lei stava raccontando il suo sogno. Laura (50 anni, infelicemente sposata, con due figli, patofobica, ipocondriaca, andata in crisi alcuni anni fa per un trauma oculare di poco conto; in passato aveva sviluppato timore fobico che lei o i figli potessero contrarre l’AIDS, sviluppando rituali di evitamento di tutte le possibili – anche se molto improbabili – occasioni di pungersi con una siringa infetta) replica in tono aggressivo e polemico: “Ti ha dato fastidio il cellulare o ti dà fastidio qualcosa di me?”.
Coordinatore a Laura: “E lei cosa pensa possa essere? Se fa questa domanda, vuol dire che ha in mente qualcosa!”.
Laura: “Non lo so, per questo vorrei che me lo dicesse Emma!… Se devo tenere il cellulare spento, non vengo più!”
Nasce un’appassionata discussione, le due (♀) continuano a fronteggiarsi polemicamente, i (♂), come il coro di una tragedia greca, riconoscono le buone ragioni ora dell’una, ora dell’altra, da una parte cercando di ricomporre il conflitto, dall’altra segnalando la percezione confusa che stia succedendo qualcosa di importante e utile per tutto il gruppo.
Quello che viene messo in scena è un dramma transferale complesso: Emma (ultimogenita non tanto desiderata di 5 tra fratelli e sorelle) rivive nel transfert con Laura una situazione conflittuale familiare con una sorella, sposata e con figli (e per questo oggetto di attacchi invidiosi), dalla quale si è sempre sentita prevaricata e rifiutata; controtransferalmente Laura rivive con Emma una situazione conflittuale con la suocera, che a sua volta sembra incarnare aspetti persecutori e invidiosi di una madre-rivale edipica, scissa dall’immagine idealizzata della madre reale, con la quale mantiene un legame simbiotico. Si configura un assetto gruppale in assunto di base di attacco e fuga: Emma sembra essere quella più fragile e indifesa, i (♂) mostrano un atteggiamento protettivo (transfert fraterno) nei suoi confronti, senza tuttavia schierarsi apertamente con l’una o con l’altra.
I transfert parziali nei confronti del terapeuta sembrano essere:
• Ø paterno da parte di Emma, che si aspetta che il coordinatore, da buon padre (Polibo) garante degli aspetti normativi (setting) scenda in campo a ristabilire ordine e a renderle giustizia, temendo nel contempo che si ripeta la frustrante e deludente esperienza vissuta nel sogno (e prima, nella realtà storica, col padre);
• Ø paterno anche da parte di Laura, che si confronta però con un terapeuta-padre rivale detentore di un potere castrante (Laio) e ne sfida apertamente l’ordine costituito (setting), chiedendone una rifondazione e rivendicando un proprio potere istituente;
• Ø materno da parte degli altri integranti, i (♂) del gruppo, che auspicano un contenimento creativo, gestazionale, delle tensioni in campo, altrimenti sentite minacciose per la sopravvivenza del gruppo – espressione di questo l’agito di un integrante che, nella foga di un suo intervento, estendendo il tronco e il collo dà una sonora zuccata contro il muro al quale era appoggiata la sua sedia.
Si vede bene come, in un setting individuale, sarebbero in ciascun singolo caso indicati interventi interpretativi differenziati, difficilmente realizzabili in un setting gruppale (nel qual caso si avrebbe una psicoterapia in gruppo, anziché di gruppo). Nella concezione di gruppo da me presentata, invece, è necessario considerare il gruppo come una Gestalt unitaria, una totalità dotata di propria soggettività (il terzo analitico di Ogden, o il soggetto del gruppo) della quale è necessario individuare il transfert nei confronti del coordinatore, e su questo costruire un’interpretazione che dia un senso degli accadimenti attuali in rapporto al compito che il gruppo sta portando avanti (cioè: la cura in gruppo).
Del tipo, nell’esempio citato:
“Questa situazione conflittuale, esplosa tra Emma e Laura, sembra segnalare un problema emotivo che il gruppo sta vivendo con me (terapeuta) in questo periodo del nostro percorso insieme: l’uscita improvvisa di Riccarda a ridosso delle vacanze di Natale, e la stessa interruzione della terapia per quel periodo, sembrano aver attivato l’ansia per la fine del gruppo, prevista fra pochi mesi. Infatti, parlando delle regole, si parla in realtà di limiti – ed il limite ultimo è la prossima fine del gruppo, annunciata e definita dall’inizio assieme a tutte le altre regole che l’hanno istituito. Alla luce di queste considerazioni, le reazioni di Emma e di Laura sembrano segnalare la necessità che per assaporare le cose buone (“le lasagne”) servite in questa “tavolata comune”, e per evitare che si ripeta la situazione frustrante descritta nello stesso sogno – tanto più deludente quanto maggiore era stata l’idealizzazione iniziale –, non ci sia più tanto tempo; l’intervento aggressivo – il “morso” – di Emma a Laura va allora visto come l’espressione del bisogno di “difendere a morsi” le proprie “lasagne”, per affermare e non perdere la propria identità personale (la propria “borsetta”, «senza la quale una donna non è nessuno», come ha commentato Giovanni). Dall’altra parte il gruppo, attraverso la trasgressione di regole del setting, segnala attraverso l’insofferenza di Laura per i limiti, della cui utilità dice di cominciare a dubitare, il suo timore per la fine, cercando di minimizzarne l’importanza. Siccome poi il rispetto delle regole implica l’accettazione di una condizione di dipendenza, c’è il rischio che per sottrarsi a questa ci si rifugi in forme di dipendenza e legami più familiari (di cui può essere spia il tenere ritualmente acceso il cellulare per timore che possa succedere qualcosa ai suoi familiari), che però portano a uscire dal gruppo (che rappresenta il nuovo, il non familiare), a disconoscere i bisogni degli altri, visti come pericolosi portatori di aspetti dipendenti tossici, potenzialmente contagiosi, “infettanti” (soprattutto se pungenti). Quindi questo conflitto tra Emma e Laura suona un po’ come richiesta di una forte testimonianza di fede da parte mia al gruppo nell’utilità del lavoro sin qui svolto col contributo di tutti, nell’opportunità di continuarlo e nell’utilità di rispettare le regole date fino alla fine. Altrimenti – sembra dire il gruppo – a che pro farsi carico di un aumento di quota, che tra l’altro introduce un ambiguo, inquietante (3) periodico nell’importo individuale da versare, impossibile da dividere equamente? Tanto varrebbe allora fare come Riccarda e finire prima…”
CONCLUSIONI
Il setting definisce l’ambito istituzionale minimo necessario, sufficiente ed indispensabile affinché possa svilupparsi un transfert (e relativo controtransfert) col terapeuta, così come l’holding materna lo è per consentire che le identificazioni proiettive del bambino vengano accolte ed interpretate attraverso la funzione di rêverie della madre. Nelle psicoterapie di gruppo, più ancora che in quelle individuali, è evidente come gli integranti, «individualmente e collettivamente, entrino in una forma di sogno diurno in cui il gruppo aiuta» gli stessi «a sognare aspetti della propria esperienza» che non sono in grado di sognare in proprio. «Si costruisce un inconscio di gruppo (una forma di terzo analitico [Ogden, 1994]) che è più ampio della somma delle menti inconsce di ciascun partecipante, mentre nello stesso tempo ciascun partecipante [o integrante] mantiene la propria separata soggettività e la propria personale vita inconscia» (Ogden, 2009, p. 90).
Quando Bion dice che «nella seduta analitica [individuale o di gruppo] si ha a che fare con due [o più] animali feroci» (Bion, 1978-80) la cui possente natura emotiva è lontana da ogni civilizzazione, credo che si riferisca al fatto che se i pazienti non posseggono la verità (“O”), neppure l’analista deve avere la presunzione di possederla, pena l’accecamento, come accadde a Tiresia per aver svelato il “terzo segreto”[3], quello che doveva rimanere un segreto divino; il terapeuta possiede in più solo la teoria, dalla quale, pur sapendo che non è che una verità pregiudiziale, non può prescindere, in quanto indispensabile per cercare di dare un senso a ciò che accade in seduta. E la teoria si concretizza nel setting, che va difeso come in un ambito istituzionale compiutamente democratico deve essere difesa la Costituzione, l’atto (e il patto) fondativo; per questo credo che ogni rottura del setting
• Ø da parte del terapeuta segnali una fragilità o un momento di crisi del suo assetto teorico (manifesto e latente), spia di un movimento controtransferale che merita attenta autoanalisi, per non pregiudicare la prosecuzione e l’esito del trattamento;
• Ø da parte del paziente vada letto sempre come un agito, come un ambivalente (nel migliore dei casi) o ambiguo (nel peggiore) attacco alle teorie del terapeuta, che deve cercare di ripristinarlo per riportare la terapia sui binari che le sono propri, quelli del pensiero e della sua espressione verbale.
[1] “Questo è il conflitto estetico, che può essere definito più precisamente nei termini dell’impatto estetico dell’aspetto esteriore della «bella» madre, fruibile dai sensi, e l’interno enigmatico che deve essere costruito da una creativa immaginazione.” (D. Meltzer, 1989, 42).
Quindi le RELAZIONI FONDAMENTALI, ricalcando il modello di Bion, potrebbero essere:
1 1. x ama y = LEGAME L (Love) + = x L y
2 2. x odia y = LEGAME H (Hate) + = x H y
3 3. x conosce y = LEGAME K (Knowledge) + = x K y
4 4. x ammira y = LEGAME A (Aesthetic) + = x A y
Esempio: x K y = ESPERIENZA EMOTIVA DOLOROSA , che dà inizio a:
®Tentativo di MODIFICAZIONE, adoperando la relazione x K y in modo tale che si finisca con l’avere una RELAZIONE IN CUI x POSSIEDA UN BRANO DI CONOSCENZA CHIAMATO y; oppure:
®Tentativo di FUGA, mediante una sostituzione del significato “x possiede un brano di conoscenza chiamato y” con uno tale che alla fine x K y , invece che un’esperienza emotiva dolorosa, stia a rappresentarne un’altra che viene IMMAGIMATA NON DOLOROSA = NEGAZIONE DELLA REALTA’; l’esperienza emotiva è falsata in modo che si evidenzi come adempimento (=falsita’) e non come aspirazione all’adempimento (=verita’). (Bion, 1972, 83-92)
[2] Il gruppo inizia quando c’è un numero discreto di pazienti (4 o 5) interessati a parteciparvi, e resta “aperto” all’ingresso di altri pazienti (fino ad un massimo di 10) per alcuni mesi; quindi viene “chiuso”, e da lì fino al termine della terapia (che viene definito dal coordinatore in quel momento) non entrano più altre persone.
[3] “The Third Secret” (“Il terzo segreto”) è il titolo di un film di Charles Chricton (con Stephen Boyd, pamela Franklin, Jack Hawkins, Richard Attenborough, Rachel Kempson, Diane Cilento, Paul Rogers e Freda Jackson) del 1964. Il protagonista scoprirà a sue spese, in questo intrigante giallo psicologico (che si apre con la morte di un analista per presunto suicido) che “il primo segreto è ciò che non diciamo alla gente; il secondo segreto è ciò che non diciamo a noi stessi; il terzo segreto è… la verità!”.
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