Il difficile rapporto tra lavoro e psicoanalisi: qualche nota al proposito

Psicoanalisi

Il difficile rapporto tra lavoro e psicoanalisi: qualche nota al proposito

di Andrea Friscelli

“ogni lavoro è creativo e ogni creatività è lavoro”

Elliott Jaques

Una delle frasi più note di Freud, divenuta ormai quasi un abusato aforisma, dice che la salute dell’uomo moderno si misura nella sua capacità di amare e di lavorare (lieben und arbeit). La frase nasce come risposta ad una domanda durante un’intervista e risente del tono divulgativo che era necessario in una simile occasione. Ma che per Freud il lavoro abbia avuto una importanza centrale lo dimostra prima di tutto la sua vita, caratterizzata da ritmi di impegno sempre molto alti fino alla fine e da diverse citazioni che elencherò più tardi. Bisogna però notare che ad un pensiero espresso ed interpretato così chiaramente nel corso degli anni, non è poi seguita una altrettanto conseguente ricerca. La psicoanalisi, infatti, si è sviluppata soprattutto attorno alle riflessioni sulla capacità d’amare, mentre sulla capacità di lavorare e sul lavoro in generale si è poco esercitata e poco ha prodotto.

Questo dovrebbe meravigliare non poco, perché, al di là dell’aforisma freudiano, il lavoro rappresenta gran parte della vita nella maggioranza degli uomini e delle donne, è fonte di relazioni e rapporti tra i più importanti, ci mette in contatto con la società e con una serie di problematiche (per esempio il rapporto col denaro, la responsabilità, il comando, l’apprendimento ecc.) sulle quali in realtà il pensiero analitico ha, per altre vie, avuto molto da dire.

Nel lavoro coesistono combinandosi in vario modo due azioni: il pensare ed il fare ed è sul secondo verbo che pesa una sorta di maledizione psicoanalitica. Come dice Perini: “Forse la psicoanalisi, nata dalla rinuncia di Freud all’influenzamento ipnotico e dall’esperienza delle “cure parlanti” (talking care), ha finito con lo sviluppare una sorta di idiosincrasia o più semplicemente una posizione di disinteresse pregiudiziale verso tutto ciò che concerne il fare, la dimensione dell’azione e quella dell’intervento sulla realtà, fin dal tempo degli anatemi contro Ferenczi, la disciplina dell’astinenza e la vigilanza contro gli “acting out” l’hanno probabilmente resa sospettosa verso ogni forma di comportamento attivo, come se il “fare” recasse stabilmente in sè lo stigma del passaggio all’atto e la sua maligna capacità di evacuare le funzioni della mente o di attaccare la relazione”.

Questa sorta di inibizione relativa al fare non ha comunque impedito che alcuni contributi sul tema siano effettivamente presenti e lo scopo di questo breve scritto è quello di raccoglierli, maprima di farlo però è il caso di esporre qualche riflessione più generale sul tema del lavoro.

Una riflessione sul lavoro non può che partire dal riconoscere come il concetto stesso possa essere oggetto di studio partendo da mille vertici di pensiero anche molto diversi e distanti tra loro, tanto è insito nelle attività dell’uomo, della sua vita, della sua storia. Ma restringendo il campo del nostro interesse agli aspetti psicologici del lavoro, del suo significato, partirei dall’aspetto contraddittorio che il concetto porta con sé.

Se da un lato posso dire che il lavoro è o può essere liberazione, creazione, affrancamento, autonomia e (in qualche caso) fama, posso però altrettanto sostenere che il lavoro è ripetizione, coercizione, schiavitù ed anonimia. Tale dilemmaticità si riscontra da sempre, si pensi che anche la lingua latina distingueva i due aspetti con due differenti termini. Da un lato abbiamo il concetto di labor che rappresenta la fatica e gli aspetti negativi. Dall’altro la parola opus segnala invece la possibilità dell’espressione della propria creatività nel lavoro, tanto che tramite essa, con le opere di una vita, l’uomo può lasciare il segno più tangibile della sua esistenza, quasi una piccola garanzia di immortalità, come nel caso più fortunato degli artisti.

Questa caratteristica di concetto bifronte, molto polarizzato tra bene e male, si rintraccia anche nelle citazioni psicoanalitiche almeno prima di Jaques. Tutti gli autori che hanno parlato del lavoro sembrano non potersi sottrarre alla polarizzazione, schierandosi di fatto da uno dei lati del dilemma.

I contributi psicoanalitici si sviluppano su due linee di pensiero con una parabola di tendenza che va dall’intrapsichico individuale all’interpersonale ed al sociale: una è quella dell’analisi del lavoro in sé, delle sue caratteristiche, del rapporto con la formazione dell’identità individuale, l’altra altrettanto se non più importante è quella dello studio dei gruppi e si sviluppa attraverso contributi fondamentali come quelli di Bion, di Foulkes, di Rickman, Main, Turquet, Jaques ed altri. Questo secondo indirizzo è stato in realtà il più fertile ed ha prodotto gli studi sulle organizzazioni di lavoro, ha dato contributi alla psicologia del lavoro. La concezione dei gruppi funzionanti per assunti di base è troppo nota perché la citi, quello che qualche volta si tende a non avere ben presente è che ogni gruppo di lavoro, anche il più razionale e produttivo, conserva parti di funzionamento psicotico miscelate con aspetti del tutto razionali. Ma proviamo ad elencare i contributi principali.

Per Freud, per esempio il lavoro è visto nel 1911 in Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico come impegno ingrato a spese del piacere. Ma anche nel 1927 in L’avvenire di un’illusione e nel 1929 nel Il disagio della civiltà emerge una visione pessimistica. La civiltà si fonda sulla rinuncia al piacere e la coercizione al lavoro, perché la natura dell’uomo è fondamentalmente egoistica ed antisociale. Poi più tardi (e ci si poteva aspettare da un “lavoratore” come lui) la sua visione cambia e parla del lavoro come di una sublimazione che permette di rendere piacevoli le attività lavorative: nessun’altra tecnica come il concentrarsi sul lavoro ci mette in contatto con la realtà. Infine parla del lavoro accettabile come un sostituto dell’attività sessuale e come attività conoscitiva. Ed è lui il primo che infine sottolinea l’importanza dell’attività gruppale, quindi il lavoro diventa il fondamento e la motivazione del legame sociale. Per ricapitolare sono almeno 6 le differenti osizioni sul lavoro che si rintracciano nel suo pensiero: a) strumento di controllo della vita emotiva, b) attività forzata finalizzata alla sussistenza del singolo e della sociaetà, c) luogo di adattamento e di confronto con il reale, d) modo di espressione e di realizzazione delle pulsioni, e) momento fondamentale nel processo di graduale conquista conoscitiva del mondo, f) infine metro di valutazione della salute psicofisica dell’uomo moderno. Per esempio in Introduzione alla Psiconalisi (lezione 22) quando esprime un concetto quasi identico.

Reik si situa quasi all’estremo del partito dei pessimisti. Infatti per lui c’è un forte legame tra lavoro e senso di colpa: così il lavoro diventa rituale di espiazione, in cui il senso di colpa costituisce la spinta motivazionale.

Hendrick all’opposto ipotizza la presenza di un principio del lavoro accanto al principio del piacere e della realtà: concepito come un’espressione dell’istinto a padroneggiare, il cui fine è il controllo delle situazioni ambientali.

Per Barbara Lantos il fine principale del lavoro non è di fornire piacere bensì di perseguire l’autoconservazione dell’individuo e della specie ed il piacere è tratto solo dall’equilibrio che si instaura tra io e super io.

L’unico che pare sottrarsi a questa visione manichea e che prende in considerazione il lavoro con un atteggiamento di scientifica osservazione, scevra, si potrebbe dire, da giudizi di stampo quasi moralistico è senza dubbio Elliott Jaques, su cui vale la pena spendere qualche parola.

Canadese, si laurea in Medicina presso la Johns Hopkins University di Toronto ed ottiene un dottorato in “Relazioni Sociali” alla Harvard University. Durante la seconda guerra mondiale si trasferisce in Inghilterra dove rimase anche dopo il conflitto, diviene cosi allievo di Melanie Klein. Nel 1946 è uno dei soci fondatori dell’Istituto Tavistock. Muore nel Gloucester, in Massachusetts nel 2003.

Verso la fine degli anni ’40 fu chiamato a dare un aiuto come consulente “sociale” – come lui stesso scrive – ad una importante azienda metalmeccanica inglese, la Glacier Metal Company, che viveva in quel periodo una difficile fase di ricambio al vertice ed era alla ricerca di un metodo etico di parametrare gli stipendi dei dirigenti con quelli degli operai. Il suo approccio fu di osservare per qualche tempo le varie attività lavorative e poi di fatto diventò il consulente organizzativo.

Da questo suo studio partì l’interesse per l’attività dei gruppi di lavoro tanto che fu tra i fondatori della branca sugli studi organizzativi della Tavistock. Prendo a prestito le sue parole per chiarire alcuni aspetti delle cose dette fino ad ora: “Il lavoro e la creatività non rientrano in una particolare disciplina accademica, anzi si può affermare il contrario: dobbiamo ricorrere a molteplici discipline per comprenderne i processi. In questo modo evitiamo di adottare punti di vista troppo restrittivi, e facciamo luce invece sulla vera natura di processi umani così importanti. Sono processi psicologici, con profonde radici inconsce; fanno parte della vita economica; possono accadere nel singolo, nei gruppi o in situazioni di lavoro dipendente; una volta misurati, possono essere remunerati in maniera più equa, ed esigono di essere presi in considerazione insieme, poiché ogni lavoro è creativo e ogni creatività è lavoro”.

Uno dei principali apporti del suo pensiero consiste nell’aver individuato nel lavoro due fondamentali componenti: una attività prescrittiva ed una discrezionale. Ogni lavoro, secondo Jacques, ha in misura diversa una miscela di questi due aspetti: da un lato le regole che sono prescritte per l’effettuazione di quel particolare lavoro, dall’altro la discrezionalità creativa di organizzarsi secondo il proprio criterio. Ovviamente in alcuni lavori il margine creativo è ridotto al minimo, ma forse in nessuno è totalmente assente la possibilità di esprimere sé stessi e la propria personalità.

L’altro aspetto che si è venuto sviluppando è quello dello studio sui gruppi. In questo campo il contributo di Bion è stato fondamentale. Vorrei però far notare che Bion sviluppò certi concetti a seguito del lavoro effettuato al Northfield Hospital di Birmingham in ambiente della psichiatria militare, con gruppi di soldati che dovevavo essere “riprogrammati” per tornare al fronte e che lui definiva come “un battaglione di lavativi”. Questo fa capire come il focus dell’attenzione fosse in un certo senso sulla produttività e non tanto sulla introspezione (come quasi contemporaneamente, nello stesso ospedale, stava invece facendo Foulkes) che certamente stava sullo sfondo. L’importante era cioè costruire un gruppo di lavoro con le caratteristiche che si sono specificate nel tempo, pur sapendo che ad un altro livello gli assunti di base e la psicosi era certamente presente.

Questo passaggio mi permette di arrivare alla questione se il lavoro può di per sé rappresentare un elemento di aiuto terapeutico in situazioni in cui identità fragili o decostruite da vicende patologiche se ne possano giovare come di un rinforzo identitario e di un meccanismo anche di conoscenza di sé. Senza però ignorare gli aspetti problematici di una pratica del genere, infatti tornando all’inizio del mio discorso ed alla dilemmaticità del concetto del lavoro, di questa dobbiamo avere coscienza: del fatto cioè che quando proponiamo il lavoro come metodo di cura inevitabilmente veicoliamo i due aspetti. Obbligando metaforicamente i nostri pazienti ad uscire dal loro eden narcisistico spesso atemporale e costringendoli a entrare nella dimensione reale lavorando col sudore della fronte, certamente proponiamo una crescita ed un’evoluzione, ma li esponiamo anche alle umiliazioni che la realtà competitiva produce. Se caliamo nella pratica della cura psichiatrica questi concetti troveremo, forse inaspettatamente che esistono molti effetti positivi di una riabilitazione attraverso il lavoro quali il ruolo sociale migliorato, una migliore disponibilita economica, l’aumento dell’autostima e la forte diminuizione dello stigma sociale, ma che sono presenti anche elementi problematici o meglio problematizzanti come aumento dello stress, nuove pressanti esigenze sociali, nuove problematiche relazionali, il rischio di potenziare il “falso sé”.

La storia ci dice che molti hanno provato ad utilizzare lo strumento “lavoro” nella riabilitazione dei pazienti gravi e non solo: in quasi tutte le istituzioni totali (secondo la dizione di Goffmann) lo si fa. In campo psichiatrico l’ergoterapia ha avuto una sua parabola che all’inizio, sull’onda degli ideali illuministici che portarono Pinel o Chiarugi a rompere le catene dei matti, la collocava tra le attività innovative e ricche di contenuti positivi e che poi nel tempo si è pervertita in una sorta di imbroglio alla spalle degli stessi pazienti che si diceva di voler aiutare, perpetuando la vita di quelle stesse istituzioni totali.

Gli sviluppi più moderni su questa linea mi pare che siano rappresentati (ma nel sostenere questa posizione forse sono di parte) dal nascere ed affermarsi della cooperazione sociale di inserimento lavorativo, che è un fenomeno particolarmente sviluppato in Italia.

Cosa cambia nella cooperazione sociale, che in fondo non può disconoscere di essere l’erede della ergoterapia manicomiale ?

Due aspetti fondamentali ed innovativi si innestano sull’utilizzo del lavoro come metodo riabilitativo: una robusta iniezione di sana cultura imprenditoriale, la stessa per la quale in ogni attività deve essere insita la sostenibilità economica, pena lo sfociare nel puro assistenzialismo, e una attenzione etica alla dinamica dei diritti e dei doveri, l’unica in grado di ricostruire il senso di una cittadinanza attiva e consapevole.

Ad oggi pertanto una cooperativa sociale d’inserimento lavorativo poggia la sua identità sul connubio di due culture: da un lato la cultura aziendale che fa riferimento all’efficienza, alla capacità organizzativa, alla capacità di reggere la concorrenza e di stare sul mercato e dall’altro la cultura della solidarietà fatta dalla capacità di ascolto e di accoglienza, di lettura e comprensione dei disagi, quali essi siano.

Possiamo sostenere che il primo tipo di cultura è sotteso da un registro paterno che tende a dettare regole ed a difendere i confini, e che la seconda agisce invece sotto un registro materno che è attento, attraverso una particolare forma di rêverie, a capire angosce e malesseri ed a restituire in cambio proposte, idee, progetti, percorsi di riabilitazione.

E’ evidente che questi due registri, lungi dall’essere in contrapposizione tra loro, devono invece collaborare e mantenere un loro equilibrio, un equilibrio che deve essere interpretato e difeso dalla leadership, dalla classe dirigente della cooperativa stessa.

In sostanza all’interno di una cooperativa d’inserimento lavorativo ci si occupa di due cose: lavorare e gestire la vita emotiva (almeno una parte) del gruppo, in modo da favorire la cooperazione tra i membri.

Vorrei finire il mio breve excursus su questi temi presentando la sintesi di un percorso riabilitativo di un paziente che ormai da anni ha trovato nell’inserimento al lavoro (naturalmente non solo con questo mezzo!) attraverso una cooperativa sociale un mezzo di ricostruzione del proprio sè.

P. è un uomo di oltre 50 anni che per lunghi anni ha vissuto una situazione di forte isolamento che lo ha spesso portato ad interpretare la realtà circostante in maniera del tutto particolare. Proviene da una famiglia benestante, ma in un lento e irrefrenabile declino, ha fatto studi classici e vanta una frequenza universitaria di qualche anno. Il padre è morto quando lui era in tenera età. Vive con la madre ed una sorella più grande che si occupano delle varie proprietà immobiliari del loro consistente patrimonio. Nessuno in realtà in questa famiglia ha svolto una vera attività lavorativa da due generazioni, lo stesso padre, morto a soli 35 anni, non ha mai praticato la sua professione di avvocato. Le speculazioni sbagliate delle due donne provocano perdite crescenti del patrimonio familiare. P. è sempre tenuto ai margini della vita e delle scelte familiari, descritto come un ragazzo timido, timoroso, con una scarsissima stima di sè, che la madre non perde occasione di peggiorare indirettamente caricandolo di ambizioni e progetti del tutto irrealistici. La situazione precipita ancora di più quando la sorella muore per un k. mammario a 42 anni, lasciando soli mamma e fratello in un rapporto fatto di un corpo a corpo continuo ed ormai non più mediato da nessuno. P. dopo qualche anno di università, si lascia vivere una vita passiva da nullafacente e si inoltra sempre di più in un mondo di fantasie persecutorie, dove si sente spesso al centro delle critiche aggressive di personaggi immaginari. La situazione economica peggiora sempre di più, nel loro bilancio esistono solo voci di uscita e nessuna entrata, inoltre scontano una gestione dissennata delle non poche sostanze a disposizione, tutta improntata ad inutili lussi, innescati dalla ambizione borghese dell’eleganza e della bellezza ad ogni costo. P. da anni fa una psicoterapia, prende regolarmente una terapia psicofarmacologica e il suo terapeuta ad un certo punto lo invia presso la cooperativa per una attività lavorativa che ne limiti l’isolamento sociale.

Inizia con molte riserve, ma accetta di partire dal basso e svolge per un certo periodo attività agricola in gruppo con altri. Poi gli viene affidata la responsabilità delle pulizie di un ambulatorio pubblico, infine dopo qualche anno viene “promosso” come custode – portiere presso l’università dove la cooperativa svolge la guardiania. Lì sembra aver trovato una buona collocazione, sempre a contatto con professori e studenti, che in qualche modo rispetta le sue origini. Con l’apprezzamento generalizzato per la sua efficienza e correttezza, raggiunge una stabilità lavorativa che ormai lo qualifica come l’unico sostegno del suo nucleo familiare. Tutto ciò nonostante i ripetuti attacchi della madre che ridicolizza lo stipendio che prende e che lo spinge spesso a mollare tutto.

Vorrei chiudere la descrizione del caso lasciando la parola a lui che, in una intervista pubblicata sul giornale della cooperativa, si è così espresso. Ad un certo punto l’intervistatrice chiede:

‑ Il lavoro quindi influenza la vita di una persona ?

‑ In questi anni ho ragionato e capito la necessità del lavoro per maturare e mantenersi senza dipendere da nessuno. Gli uomini generalmente lavorano e, se uno non lo fa, e’ un po’ strano; anche per me è stato così, il lavoro fa sembrare la vita normale anche se non lo e’ totalmente: avrei fatto bene a capirlo prima perchè questo influenza positivamente la mia salute e il mio umore.

Io vivo solo con una vecchia madre, la vita è monotona, i rapporti con gli altri non vengono spontanei, avere un’attività mi riempie le giornate, mi fa impiegare energie fisiche e mentali, è valvola di sfogo a nervosismi e inquietudini. Certo, nonostante i miglioramenti ottenuti, certi problemi rimangono, ma vengono visti da me con maggior serenità e lucidità.

Naturalmente sono cosciente che tanti altri percorsi trovano difficoltà, si arenano, non vanno avanti o falliscono del tutto e quindi è senza superficiali trionfalismi che comunque rimango della convinzione che il lavoro possa avere benefici effetti e che anche per questo, ma non solo, andrebbe maggiormente studiato in tutte le sue dinamiche.