Antichrist

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Antichrist

Antichrist

La terzietà del figlio

a cura di Luca Ricci

tempo di lettura 2 minuti

Regista: Lars von Trier

Anno: 2008

Produzione: Danimarca, Germania, Italia, Svezia, Polonia

Antichrist è un film che a mio avviso si presta a una grande varietà di letture. È un film che angoscia sin dal primo fotogramma e che non perde questa carica fino all’epilogo.

Due soli personaggi, a richiamare una situazione molto potente nella mente: quella di coppia. È una coppia che ha perso il figlio e che si trova ad affrontare il più tragico dei lutti. La perdita è complicata dal fatto che è avvenuta mentre i due stavano avendo un rapporto sessuale. In seguito alla morte del figlio, la madre cade in uno stato di shock e depressione dai quali non sembra uscire. L’uomo è uno psicoterapeuta, il quale, vedendo l’inefficacia dei trattamenti psicofarmacologici prescritti alla compagna, decide di farla dimettere dall’ospedale e di tentare di “guarirla” lui stesso. Dopo alcuni tentativi a casa, l’uomo pensa di riportare la donna a Eden, un bosco dove hanno una casa. Lì, la donna aveva passato l’estate precedente insieme al figlio mentre scriveva una tesi sulla persecuzione delle donne nella storia. I tentativi dell’uomo, però, si muovono sempre all’interno delle fortissime emozioni che legano la coppia e portano alla luce la follia di questa. Follia che si manifesta in modo esplicito nella donna, ma che silente anima anche il comportamento del terapeuta. Piano piano emergono le destrutturazioni del pensiero della donna che si vanno a legare alle tematiche della tesi che stava scrivendo e che assumono sempre più i connotati di un delirio strutturato. L’uomo sembra scoprire così una “parte” della compagna che prima sembrava non aver intuito. Emerge l’ambivalenza della donna verso il figlio, sottoposto a pratiche dolorose come portare le scarpe al contrario. Ancora di più, si scopre che la donna poteva prevedere che il bimbo avrebbe potuto uscire dal box e raggiungere la finestra lasciata aperta. E più che una previsione, sembra che abbia facilitato la tragedia, omettendo di intervenire nel momento in cui aveva visto il figlio uscire dal lettino, perché presa dal rapporto col compagno. Al culmine del delirio, l’uomo viene gambizzato e reso inerte. Vicino a lui, la compagna si amputa l’organo del piacere. Riuscitosi a liberare, l’uomo tenta di nascondersi, braccato dalla compagna, che in realtà sembra bramare la vicinanza con lui. Finché non giunge il tragico scontro.

Sebbene il film presenti l’uomo come lo spettatore di una mente che si sfalda e si ricompone nel delirio, viene da immaginare che la follia fosse già insita nella coppia e che il film rappresenti (anche) un assetto relazionale in cui non c’era spazio vitale per un figlio. I due protagonisti sembrano vivere la loro storia d’amore in un clima che vincola i ruoli: l’uomo è colui “che cura”, con una razionalità onnipotente, un faro per la compagna. Lei è passionale, impulsiva, visibilmente coartata nell’espressione di sé: una piccola donna nell’ambivalenza tra l’essere protetta e il rinnegare ogni dipendenza. Ciò che mette in scacco la coppia è proprio l’esclusività dell’assetto duale, il fatto cioè che la “cura” possa essere trovata all’interno. Il figlio sembra, in questo quadro, interrompere l’armonia di questo equilibrio, portando bisogni di dipendenza, tutela e crescita che la coppia prevede solamente per se stessa. Il figlio appare come una terzietà che però non ha il potere del paterno, non può separare una coppia nell’unità dei ruoli. Quindi non può che soccombere, escludersi. Dopotutto, il luogo scelto per la “terapia” si chiama Eden: un posto immerso nella natura in cui abitano solo Adamo ed Eva. La coppia isolata.

Il lutto viene affrontato in modo autarchico, in una confusione di ruoli che esaspera la dinamica di potere-passività, dipendenza-indipendenza. Nell’asimmetria confusiva del compagno che cura la compagna, questo equilibrio cede e si esasperano i conflitti di base: i ruoli piano piano si capovolgono, senza però modificarsi. La donna frustra i tentativi di aiuto dell’uomo e diviene la parte attiva e potente della coppia. L’uomo, travolto nella sua onnipotenza, diviene passivo. Almeno fino al momento di salvaguardare la vita. La rottura degli equilibri porta al pensiero insostenibile della separazione, possibile solo con un altro lutto, con la scomparsa fisica di un membro della coppia. La separazione è mortifera, così come era stata vissuta con l’arrivo del figlio, terzo in una diade asfittica e asfissiante. Nelle scene iniziali, i corpi della coppia sono uniti, ermetici nella passione, esclusivi ed escludenti. È una scena senza aria, senza respiro, soffocante, che si sviluppa sulle note del “Lascia ch’io pianga” di Händel. Ma forse quel pianto è solo la ricerca di un respiro profondo, aperto, liberatorio. Appare significativo che il figlio si lanci fuori dalla finestra: forse era alla ricerca di aria.